Quali parole per quale scuola di Marina Boscaino, MicroMega 17.3.2014 Bologna è la città in cui, nel maggio scorso, è stato celebrato un referendum consultivo per chiedere ai cittadini se preferissero sovvenzionare con i fondi pubblici esclusivamente le scuole dell’infanzia pubbliche o anche quelle private. L’esito del referendum – decisamente a favore della prima ipotesi – è stato completamente ignorato dalla giunta a guida Pd. Compattamente – dal sindaco a tanti esponenti di quel partito, compreso l’attuale premier – si schierarono all’epoca a vantaggio del finanziamento alle scuole private, argomentando che esse svolgono un utile servizio per la comunità, in nome del principio di sussidiarietà; ma dimenticando – tutti – che al comma 2 dell’art. 33 la Costituzione recita: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”. Compreso quindi la scuola dell’infanzia; i cui bambini, in virtù di tale inadempienza, vengono costretti a frequentare scuole confessionali (la maggioranza schiacciante delle private) a costi molto alti. Il 15 marzo ho partecipato ad un interessante convegno, che si è tenuto a Bologna, sul tema Le parole chiave per capire il presente e progettare il futuro della nostra scuola, organizzato dall’Associazione per la Scuola della Repubblica. Quali sono o quali dovrebbero essere le parole chiave? Costituzione, democrazia, uguaglianza, merito, scuola pubblica, legge popolare. Che la prima sia l’elemento imprescindibile, la stella polare che dovrebbe illuminare il percorso dei singoli individui, ma anche quello di coloro che hanno la responsabilità di orientare le politiche scolastiche e amministrare la scuola, lo ha spiegato con parole semplici ed inequivocabili Lorenza Carlassare, costituzionalista. Raccontando – attraverso un percorso tra gli artt. 3, 33 e 34 – ciò che la Carta dice veramente rispetto a quelle parole – democrazia, uguaglianza, merito, diritti fondamentali, laicità, scuola pubblica – a cui ormai ciascuno sembra dare una propria interpretazione, come è stato provato dal dibattito tra la politologa Nadia Urbinati e l’economista Andrea Ichino. Si sono contrapposti i punti di vista di un liberista e di una liberale, in particolare sul tema del merito; e di come, rispetto ad esso, fortuna e capacità/impegno/ intraprendenza/flessibilità dell’individuo giochino un ruolo più o meno decisivo. Dalle parole di Ichino è emerso un mondo triste e meccanico, dove prevale la legge del più: il più intelligente, il più dotato, il più capace di rispondere a test a crocette…. Un mondo in cui la scuola deve essere completamente autonoma, e ognuno se la fa come vuole. Molto più articolato il ragionamento della Urbinati, che ha affrontato il tema della disuguaglianza e degli anticorpi che una società democratica deve essere in grado di sviluppare contro di essa. Inserendo l’istruzione obbligatoria tra i diritti politici fondamentali, lo Stato si arma e crea le proprie scuole, pubbliche perché noi siamo pubblici in quanto cittadini. Dopo l’obbligo, la Urbinati considera il merito il criterio che debba orientare la possibilità di proseguire o meno negli studi. Posizione opinabile: l’acquisizione delle abilità di base – per semplificare, il leggere, lo scrivere e il far di conto – non annulla l’eventuale svantaggio di partenza; lo dimostra il rapporto tra gli esiti delle prove di III media e la condizione socio-culturale della famiglia di provenienza; l’origine socio culturale della popolazione scolastica della fascia più debole e mortificata della scuola superiore (il tecnico e, ancor più, il professionale), in cui confluiscono la maggior parte degli esiti non brillanti delle medie; la maggior parte dei migranti, dei diversamente abili e in cui è concentrata la maggiore propensione al ritardo e alla dispersione scolastica. Ma il discorso sarebbe lungo. L’affermazione di Lorenza Carlassare che, durante la mattinata, aveva esplicitamente sostenuto che la legge 62/2000 (quella che stabilisce la parità tra scuole private che soddisfino determinati requisiti e scuole statali) è incostituzionale, ha rappresentato il punto di partenza del dibattito pomeridiano tra Corrado Mauceri, dell’Associazione Per la scuola della Repubblica, e Osvaldo Roman, dell’ufficio legislativo del Pd alla Camera. Mauceri ha ricostruito il processo storico – inaugurato nel ’93 con la privatizzazione del pubblico impiego – di cui la legge sulla parità è uno dei frutti amari: da allora in poi è stato costantemente messo in discussione il principio costituzionale della scuola pubblica come istituzione dello Stato. Ha poi sottolineato la condizione di ambigua parità in cui la norma colloca scuole statali e scuole paritarie. Infine, ha ricostruito il percorso degli ultimi 20 anni durante il quale, ministro dopo ministro, comprese le ultime inquietanti dichiarazioni di Giannini, si è sostanziato il cosiddetto “sistema integrato”: privato e pubblico sono stati di fatto resi interscambiabili, compresa la concessione di finanziamenti pubblici alle scuole paritarie. Di tutt’altro avviso Roman: la legge 62 non è anticostituzionale; essa esprime, implicitamente ed esplicitamente, quanto individuato nel 3° comma dell’art. 33 della Costituzione: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Sono state semmai le interpretazioni di quella norma, comprese le leggi regionali ed alcuni provvedimenti ministeriali, a individuare elementi contrari al dettato costituzionale. Ha concluso l’incontro la toccante ricostruzione che Francesco Mele ha fatto dell’ideazione, della redazione e della raccolta di firme per la legge di iniziativa popolare Per una buona scuola per la Repubblica, che fu depositata presso la Camera dei deputati il 4 agosto 2006, sostenuta da 100.000 firme e da 120 comitati di base locali. Fu incardinata con il n. 1600 nella XV legislatura. La VII commissione ne iniziò la discussione ad aprile 2007. La crisi di governo del gennaio 2008 e l’opposizione di PD e PDL al provvedimento ne interruppero l’iter. Nella XVI legislatura fu calendarizzata, ma non fu mai discussa né considerata ai fini dell’emanazione della Legge Gelmini. Dopo due legislature le leggi popolari decadono. Si tratta – invece – di un testo molto interessante, su cui il partito di maggioranza di un governo che continua a sostenere di voler “mettere la scuola al centro” della propria agenda politica dovrebbe quanto meno interrogarsi. E ringraziare migliaia di cittadine e cittadine che ne hanno mediato la stesura definitiva, i tantissimi che si sono impegnati per la raccolta delle firme, quanti hanno partecipato a vario titolo a quel momento di grande competenza, passione e mobilitazione della sociatà civile in difesa della scuola pubblica. Leggete, invece, il resoconto di quanto avvenuto in occasione della proverbiale “giornata di ascolto” del mondo della scuola, organizzata dal Pd qualche giorno fa. Il racconto è davvero gustoso e ci dà qualche indizio in più per valutare quanto sia genuino l’interesse di quel partito ad ascoltare davvero il mondo della scuola. |