IL RAPPORTO ANVUR La laurea «breve»? Non esiste Per portare a termine un corso triennale ci vogliono in media 5 anni e un mese. E solo pochi fortunati arrivano in fondo: il 40% lascia. Il vantaggio relativo delle facoltà a numero chiuso come Medicina. Dal 2009 tagli alla spesa per un miliardo di Orsola Riva, Il Corriere della Sera scuola 18.3.2014
Matricole allo sbando
Per tre studenti su dieci
il primo anno è un anno buttato via: il 15% delle matricole rinuncia
del tutto al sogno della laurea; un altro 15% si accorge di aver
“toppato” strada ma ci riprova iscrivendosi a un altro corso
universitario. Un dato drammatico che mostra la difficoltà del
passaggio scuola-università: da qui l’importanza, anzi l’urgenza, di
potenziare l’orientamento negli ultimi anni di scuola superiore.
In controtendenza, i dati
relativi alle lauree a ciclo unico ad accesso programmato, in
particolare Medicina. Qui il tasso di abbandono dopo il primo anno è
bassissimo (l’8,6%) mentre in facoltà aperte a tutti, ma a basso
tasso motivazionale, come Sociologia e Scienze Politiche, si aggira
attorno al 20 per cento. Decisamente migliore anche il tempo di
percorrenza medio per il conseguimento del titolo a 6 anni (7 anni e
4 mesi) con una percentuale di fuoricorso pari al 33,4% (contro il
42% delle lauree triennali). Un argomento a favore del numero chiuso
pensato non già come uno strumento crudele di selezione darwiniana
ma come un modo per orientare i ragazzi nella scelta
dell’università. Se ti prendi la briga di studiare duro per passare
il test di medicina è facile che la tua motivazione (e anche la
preparazione di base che hai dimostrato di possedere) ti porti
avanti negli studi.
In generale il sistema
universitario italiano, come già quello scolastico, si caratterizza
per una chiara frattura fra Nord e Centro-Sud. Al Nord ci sono
sensibilmente meno abbandoni dopo il primo anno (12,6% contro il
17,5 del Sud) e il percorso è più spedito: «solo» 4 anni e mezzo per
la laurea triennale (al Sud ci mettono un anno in più!). Dati
speculari per i laureati in corso: al Nord va decisamente meglio
(più di quattro su dieci), mentre al Sud sono delle vere e proprie
mosche bianche (poco più di due su dieci). Il che spiega, almeno in
parte, la fuga dagli atenei del Sud degli studenti meridionali più
volonterosi (e con più mezzi): uno su 4 si iscrive in un ateneo del
Centro o del Nord.
Solo uno studente su due
(il 55%) , terminato il primo ciclo decide si iscriversi alla laurea
magistrale, ma anche in questo caso i dati variano moltissimo a
seconda del corso di laurea: nel caso di Matematica e Fisica il
tasso supera l’80%, il che vuol dire che la laurea triennale è
(quasi) carta straccia. Al Sud poi la percentuale è sensibilmente
più alta che al Centro e al Nord (60,3% contro 50,9% e 52,5%): il
sospetto è che la scelta sia condizionata più che dalla forte
motivazione a proseguire gli studi, dalla mancanza di opportunità di
lavoro. In generale, gli iscritti alle lauree specialistiche
“corrono” di più (in media ci mettono 2 anni e 8 mesi per compiere
il percorso biennale) e hanno un tasso di successo maggiore.
Nell’ultimo decennio,
dalla riforma Berlinguer in poi, il numero dei laureati è salito
considerevolmente, passando da 161 mila nel 2000 a 210 mila
(magistrali esclusi) nel 2011. Ma lo scarto con i nostri vicini (e
rivali) europei non si è ridotto: 22,3% di laureati tra i 25-34enni
contro una media Ue del 35,3%. Nel tentativo di spiegare le ragioni
del ritardo italiano il rapporto Anvur si sofferma su due “anomalie”
del nostro sistema. Primo, la scarsa attrattività delle nostre
università per gli adulti: i cosiddetti immatricolati «maturi»,
quelli con almeno 25 anni, sono appena l’8% del totale contro un
valore Ue del 17% . A disincentivarli, ha contribuito anche il
drastico ridimensionamento degli incentivi per gli studenti
lavoratori imposto dall’ex ministro Mariastella Gelmini (che ha
quasi azzerato la possibilità di riconoscere i crediti formativi
maturati sul luogo di impiego). E poi la mancanza di corsi
universitari a carattere professionalizzante (la cosa più simile da
noi sono le scienze infermieristiche) che altrove, in particolar
modo nell’altro grande Paese manifatturiero dell’Unione, la
Germania, fanno la parte del leone. Ma, a voler ben vedere, un’altra
«anomalia» è quella della spesa pubblica per l’università: il
confronto con la media Ocse è impietoso (-3o% in rapporto al numero
degli studenti, -37% in rapporto al Pil). Dal 2009 a oggi i tagli
ammontano a 1 miliardo. Tra le ricadute più drammatiche, quella sul
diritto allo studio. Le borse a favore di studenti privi di mezzo
scarseggiano sempre di più: il tasso di copertura è passato dall’86%
a un drammatico 69%. E questo sicuramente pesa sul calo
(percentuale) di immatricolazioni degli ultimi anni.
Nonostante le difficoltà
strutturali e congiunturali, la laurea continua a offrire migliori
prospettive occupazionali e migliori guadagni del diploma, anche se
il vantaggio relativo è minore che in altri Paesi europei. Un dato
interessante, segnalato dal rapporto Anvur, è quello relativo alla
differenza fra redditi da lavoro dipendente e autonomo: mentre nel
primo caso il vantaggio si attesta per i laureati attorno al 25%,
nel secondo si è quasi annullato. Una spiegazione possibile potrebbe
risiedere nella forte incidenza di forme di lavoro atipico come
collaborazioni e contratti a progetto, particolarmente diffuse nelle
professioni intellettuali.
Se già i soldi per
l’università son pochi, quelli per la ricerca sono ancora meno. Si è
detto e ridetto che a pesare negativamente è soprattutto la scarsità
di investimenti privati: un misero 0,52% del Pil, la metà della
media europea e lontano anni luce dall’1,8% della locomotiva
tedesca. Ma il rapporto ci tiene a sottolineare quanto pesino anche
i pochi decimi di punto di scarto fra spesa pubblica italiana e
media Ocse (0,52% del Pil contro una media Ocse dello 0,7%). In
termini percentuali è pochissimo, ma in termini assoluti corrisponde
a tre miliardi di euro, cioè circa un terzo del finanziamento
pubblico totale. In chiusura, un ultimo dato allarmante: quello relativo al numero dei professori. Tra il 2008 e il 2013, in seguito al blocco del turnover, il corpo docente (che a partire dalla riforma dei concorsi del 1998 aveva attraversato una lunga fase di espansione) si è ridotto del 15%, tornando sui livelli di inizio anni 2000. Se i docenti manterranno la stessa propensione al pensionamento osservata nell’ultimo anno, tra il 2014 e il 2018 si ritireranno oltre 9.000 docenti di ruolo. Con numeri simili, sarà necessaria l’immissione in ruolo di un gran numero di docenti (circa 1.800 all’anno) a meno di non voler mettere a repentaglio l’assolvimento del carico didattico (e di ricerca) e la tenuta dell’intero sistema universitario. |