Se i bimbi cantano il culto di Matteo A Siracusa dunque non c’è stata la manipolazione sordida tipica dei regimi ma la paideia, il tentativo di ridurre i bambini a protesi ornamentale, di formarli alla piaggeria e all’adulazione di Francesco Merlo, la Repubblica scuola 6.3.2014 Diciamolo più chiaro: se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato «prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia». E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe coperto quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: «Presidente Renzi, da oggi in poi / ovunque vai, non scordarti di noi». Non l’ha fatto e l’Italia intera lo ha visto ubriaco di lusinghe. Ha cominciato ad abbracciare tutti e «Facebook non vale un abbraccio » ha detto, e pensate quanto sarebbe stato renzianamente bello sentirgli invece dire: «Disobbedite, se volete il mio abbraccio». Anche quel vezzo stucchevole di farsi chiamare Matteo più che da sindaco d’Italia sta diventando un tic da televisivo, non statista in versione Vasco Rossi ma imbonitore in formato Antonella Clerici, quella di “Ti lascio una canzone” che è appunto la fiera del bambino da salotto, tutto moine e mossette, che nessuno, soprattutto a sinistra, vorrebbe avere per figlio. C’era in più, in quella filastrocca cortigiana, anche il tentativo del glamour, con il clap and jump, e persino con il blues, la disposizione in semicerchio, il gioco perverso di regolare gli evviva e gli applausi, la fatica ruffiana di tradurre e adattare un testo inglese. Tutto questo per aggiungere charme al solito immaginario canoro degli italiani: una spruzzatina del Sanremo di Fabio Fazio sui bimbi- scimmiette del Mago Zurlì. Ecco il punto: Renzi ha tutto il diritto di girare le scuole d’Italia, se è questa la sua cifra di politica popolare, ma per cambiarle, come aveva promesso, e non per degradarle a serbatoi delle sue majorettes.
Capisco che qui è facile il paragone con l’uso dei bambini nei
totalitarismi, sul quale infatti si è banalmente esibito Beppe
Grillo: i figli della lupa, gli avanguardisti della ventisettesima
legione che salutavano il duce intonando “Giovinezza”, oppure “i
battaglioni della speranza”, ragazzini dai dodici a quattordici anni
che cantavano nelle parate dell’Est europeo. La verità è che anche
in democrazia troppo si abusa dei giovanissimi, perché fa un sacco
bello lasciare che i bambini vengano a noi e, come ha scritto Milan
Kundera, “nessuno lo sa meglio degli uomini politici: quando c’è in
giro una macchina fotografica si precipitano verso il bambino più
vicino per sollevarlo in aria e baciarlo sulla guancia”. Ma ieri a Siracusa ho visto di peggio. Un retroscena rivela infatti che nell’esibizione di quella scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, non c’è stato solo l’accanimento politico — e ridicolo — del sindaco Giancarlo Garozzo. Ecco il colpo di scena: la preside Cucinotta, che è la vera regista responsabile dello spettacolino, e la sua vice Katya De Marco sono accanite militanti di Forza Italia. E dunque io, che da quelle parti sono nato, ci ho visto soprattutto la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale dello zio d’America, e mi sono ricordato che Silvio Berlusconi a Lampedusa fu accolto come un messia, come un conquistador. Perché sempre così è salutato l’uomo potente che viene da fuori, l’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, un presidente del consiglio o non importa chi, purché venga appunto da fuori. Renzi si rilegga, per risarcire l’Italia, Carlo Levi che racconta di quel tal Vincent Impellitteri che — cito a memoria — tornato dall’America, entra in paese (era la provincia di Palermo e non di Siracusa) su una lussuosa macchina scoperta, ed è accolto dalla gente in festa che lo tratta come uno sciamano: «‘Tuccamu a machina, così ce ne andiamo in America’ gridavano i ragazzi del luogo». Ebbene, Impellitteri non solo non li abbraccia e non dà loro il cinque, ma si addolora e si rattrista al punto che si mette a piangere. |