DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO Aboliamo la parola «dislessia» Eccesso di diagnosi, abuso del termine: solo in Italia siamo arrivati al 5% della popolazione scolastica. Da qui la proposta (provocatoria) di un team di ricercatori inglesi: archiviare l’«etichetta» Il Corriere della Sera scuola 19.3.2014 Gli incompresi
Poche decine di anni fa
esisteva un esercito incompreso di bambini affetti da dislessia,
discalculia, disortografia, disgrafia che passavano semplicemente
per ragazzini svogliati e negligenti. Il classico «potrebbe
riuscire, ma non si applica». Poi si è capito e si è corsi ai
ripari. La diagnosi arriva ormai abbastanza solertemente e insieme
alla diagnosi arrivano giustamente una serie di strumenti
compensativi e dispensativi per far fronte a quello che non è un
deficit cognitivo, bensì, secondo la definizione approvata
dall’International Dyslexia Association, «una disabilità
dell’apprendimento di origine neurobiologica». Sui Dsa esiste ormai
una grande attenzione, ma il termine dislessia rischia di diventare
una parola-ombrello ormai desueta e troppo ricorrente. Anche a
sproposito.
«Poco scientifico e
inutile»: così è stato bollato il vocabolo, dando spazio a un ampio
dibattito. Perché le parole per dirlo sono importanti, sempre, e a
maggior ragione se si parla di apprendimento, di infanzia e di
difficoltà. «The Dyslexia Debate», scritto dallo psicologo della
Durham University Joe Elliott e da Elena L. Grigorenko, spiega nel
dettaglio i diversi modi in cui i problemi nella lettura sono stati
concettualizzati e affrontati e discute le ricerche più recenti nel
campo delle scienze cognitive e genetiche e nelle neuroscienze,
ammettendo ancora dei limiti vistosi nella diagnosi e nel
trattamento di questi disturbi. Ma per dare un aiuto serio, secondo
i due autori, occorre riposizionare il problema e coniare una nuova
parola che fornisca una descrizione scientifica dettagliata. Oppure
semplicemente eliminare le etichette, evitando anche che qualcuno
approfitti di una diagnosi disinvolta per usufruire di vantaggi
ingiustificati. Il punto è che ovunque sono in aumento i bambini affetti da «disturbi specifici di apprendimento»: solo in Italia siamo arrivati al 5 per cento della popolazione scolastica (ma nei Paesi anglosassoni si arriva all’8 per cento) e i nuovi casi superano i trentamila all’anno. Secondo l’Istituto italiano di Ortofonologia però solo il 4 per cento segnala l’esistenza di un vero problema, quindi un bambino su cinque è considerato dislessico senza esserlo. Circa il 3 per cento dei bambini anticipatari per esempio vive un disagio generalizzato che si trascina per tutto il percorso scolastico e medicalizzare il problema non aiuta a trovare una soluzione. Il dibattito è aperto, tra sostenitori e detrattori del termine. Ma il fatto che i bambini che hanno realmente questo svantaggio siano riconosciuti (in Italia grazie alla legge 170 del 2010) è una conquista indiscutibile e anche in questo caso l’aver trovato una parola per definire una condizione articolata e complessa ha aiutato ad aiutare chi ha bisogno. E non chiamiamoli più svogliati. |