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         La svalutazione della scuola: indagine sull'INVALSI I test Invalsi spariscono dall’immaginario della gran parte dei docenti per alcuni mesi, dalla fine di maggio a più o meno l'inizio dell'aprile successivo; come se tutti noi non sapessimo che alla conclusione dell’anno scolastico seguente ci verranno regolarmente riproposti. Ogni volta alcuni di noi si indignano, mentre altri si fanno appassionare dal merito docimologico o dal formato aperto o proprietario delle “maschere” per la raccolta dei dati statistici. Ogni volta si moltiplicano le iniziative di boicottaggio, si ripropone la normativa che ne ha determinato la parziale imposizione, corroborata dall’efficace azione di presidi troppo zelanti e di troppo ossequienti insegnanti. Insomma, ogni volta si riparte da zero e il "che fare?" non è mai definitivo, ma si limita a riflettere sulle condizioni dell’anno in corso. di Marina Boscaino, La Ricerca 9.5.2014 C’è modo e modo Cosa sono i test Invalsi? “Sono prove oggettive standardizzate che hanno lo scopo principale di misurare i livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti italiani relativamente ad alcuni aspetti di base di due ambiti fondamentali, la comprensione della lettura e la matematica, e di collocarli lungo una scala in grado di rappresentare tutti i risultati degli studenti, da quelli più bassi a quelli più alti. Una prova del genere contiene dunque sia domande complesse, alle quali è in grado di rispondere solo una piccola, o anche piccolissima, minoranza degli studenti, sia domande molto semplici, accessibili alla quasi totalità della popolazione studentesca”, si legge sul sito dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione. Sono davvero convinta che, con un trattamento e con procedure differenti da quelli adottati, si sarebbe riusciti a costruire una situazione meno conflittuale. Invece, eccoci qua: per l’ennesimo anno celebriamo i test Invalsi in un clima irrespirabile, tra scioperi coraggiosi (particolarmente attivi Cobas e Unicobas) e diffusissimi mugugni, tra affermazioni serie, iniziative serie, studi seri, materiale utile di tanti insegnanti mobilitati. Io, in genere, mi fido delle maestre. Perché sono le più preparate; quelle che, con estrema consapevolezza e grande passione, si sono opposte dignitosamente e in totale solitudine alla scuola “delle 3 i” della Moratti, al maestro unico, al portfolio delle competenze, alla rottura del modello didattico pedagogico del tempo pieno. Quindi leggo quello che scrivono Elettra, Rosaria, Valeria e tante altre sui blog di scuola e sulle pagine di FB e imparo; ascolto quello che dice Piero nelle riunioni che facciamo e imparo. Ripenso alla storia del maestro Flavio e, ancora, imparo. 
			Imparo cose che, però, vengono puntualmente smentite: ieri le classi 
			II e le V della primaria hanno affrontato
			
			la prova di Italiano; oggi, il 7 maggio, le stesse classi stanno 
			affrontando la prova di Matematica; il 13 sarà il turno degli 
			studenti delle classi II della secondaria di II grado (Italiano e 
			Matematica). Dalle cose che leggo nelle parole e negli atteggiamenti degli amici citati e di altri, mi convinco che un’altra strada sarebbe stata possibile. Se solo si fossero volute sfruttare le loro e altre intelligenze, le loro capacità; il loro stare, giorno per giorno, con i bambini. Se, cioè, non si fosse voluta ridurre la valutazione a un’operazione svincolata da qualsiasi valenza culturale e formativa. Da qualsiasi attenta rilevazione degli effettivi bisogni della scuola, delle sue criticità, delle sue eccellenze: miglioramenti e peggioramenti letti non in chiave archivistica o punitiva, ma come evidenze che indichino la strada per interventi concreti e risolutivi dei problemi segnalati. Invece, per l’establishment istituzionale degli ultimi lustri, è stato più comodo leggere da parte critiche e obiezioni come ostruzionismo pretestuoso ed autoreferenziale, espressione del vizio degli insegnanti italiani di allontanare da sé tutto ciò che “puzza” di valutazione 
			Sostiene Vertecchi, a proposito dell’idea che occorrano due anni per 
			preparare i test Invalsi (oggetto di tante critiche, non solo 
			politiche, ma anche e soprattutto di carattere pedagogico): “Ciò che 
			mi lascia più perplesso è che i due anni sono considerati necessari 
			per mettere a punto prove che non presentano alcun aspetto 
			innovativo. Le prove che si continuano a usare sono varianti tratte 
			da uno strumentario definito fin dalla metà del secolo scorso. 
			L'apparato metodologico che dovrebbe assicurare qualità delle prove 
			non è molto più recente. Lascio immaginare che cosa accadrebbe in 
			qualsiasi altro settore che per oltre mezzo secolo presuma di 
			lasciare inalterato l'apparato interpretativo e quello metodologico 
			con il relativo strumentario”. La neo presidente dell’Invalsi, Anna Maria Ajello, ha recentemente dichiarato al “Messaggero” che “I test vengono rivisti regolarmente e cambiati perché, ad esempio, alcune formulazioni sono troppo complicate. Ho provato a leggere le domande del test di seconda elementare, in alcuni casi ho dovuto leggerle due volte prima di capire la domanda. Non è ammissibile (…) Non si possono effettuare le prove sulla base di tranelli o furbizie. Non vanno rese più difficili i test ricorrendo a queste complicazioni. Sto già incontrando gli esperti per capire come all’interno del quadro delle indicazioni nazionali si possano mettere a punto delle prove ben fatte». Posizione ambigua: se "vengono rivisti regolarmente", perché le formulazioni sono rimaste "complicate"? E perché un pedagogista, la cui competenza è unanimemente riconosciuta, avrebbe sottolineato l’inadeguatezza e la datazione dell’apparato metodologico? 
			Il sospetto nei confronti dei test non corrisponde – come si vuole 
			(far) credere – a un rifiuto acritico o ideologico della 
			valutazione; a una pretestuosa predilezione di matrice 
			“sessantottina” per istanze tipo appiattimento e livellamento degli 
			apprendimenti e della loro rilevazione o simili (si è detto di 
			tutto); ad un’incapacità ontologica del docente italiano di 
			valorizzare il merito e riconoscere il demerito. Le riserve, semmai, 
			si rivelano – anno dopo anno – fondate sia nel merito che nel 
			metodo, offrendo persino al presidente dello stesso Invalsi la 
			possibilità di contestare i test, almeno dal punto di vista della 
			formulazione (che, parlando di quesiti, non è poco…). I quesiti 
			Invalsi non sono "ben fatti", è ciò che ha affermato in sostanza 
			Ajello. E poiché questo è uno degli aspetti più ricorrenti della 
			critica e dell’avversione dei docenti, rimandiamo le repliche dei 
			difensori d’ufficio al mittente. Le numerose difese d’ufficio del modo di agire dell’INVALSI danno adito ad alcuni non infondati sospetti nel metodo. Voglio dire: non è Ajello la prima ad affermare l’inadeguatezza dei test. L'ostinazione sorda con cui l’azione è stata portata avanti – nonostante numerose critiche, richieste di attenzione da parte della scuola, esplicite affermazioni di pedagogisti illustri – in qualche modo segnala un’ulteriore motivazione dell'operazione. Perché – in un certo momento storico del nostro percorso – c’è stata la necessità di fare abbattere sulla scuola una metodologia valutativa con scarsa fondatezza scientifica e culturale, fonte di atteggiamenti polemici e conflittuali, non pensando, invece, che la valutazione prevede – preventivamente – una profonda e seria “cultura” della valutazione? I test Invalsi si collocano all’interno di un quadro di riferimento europeo, che fa emergere in alcuni Paesi – legittimamente e in maniera scientificamente significativa – la valutazione nelle sue differenti declinazioni (del sistema, degli istituti, degli insegnanti, degli studenti) come uno degli strumenti necessari da una parte per la rendicontazione sociale – ossia per rendere conto ai legittimi e naturali portatori di interesse (famiglie, comunità, decisori politici, il Paese) dei risultati che il sistema scolastico è in grado di conseguire; dall’altra per il miglioramento del sistema stesso. In alcuni Paesi UE che da tempo prevedono la somministrazione di prove analoghe, esse vengono sostenute da una cultura della valutazione storicamente sviluppata e scientificamente determinata, supportata da investimenti significativi anche in termini di quote percentuali costantemente destinate rispetto alla spesa totale per l’istruzione. Esistono istituti, insegnanti, pratiche, interessati da formazione e finanziamenti destinati. Si aggiunga il fatto che, sia dal punto di vista metodologico che contenutistico, i test Invalsi riflettono una tendenza ad accogliere modalità di indagine che in Europa sono diffuse perché compatibili con le scelte didattico-pedagogiche dei Paesi del Nord, in particolare di area anglofona. Unendo queste osservazioni e inserendole nella situazione italiana, risulta evidente che nel nostro Paese – oltre alle riserve di carattere pedagogico, didattico e metodologico – i test Invalsi danno vita ad ulteriori perplessità. Mi si segnali, per esempio (perché non ne sono a conoscenza), un unico intervento pubblico motivato dalle evidenze della valutazione Invalsi. Quello che invece risulta sempre è la reprimenda sulle incompetenze e incapacità dei nostri studenti, che va a corroborare la diffusa opinione negativa sugli insegnanti; esattamente come accade dopo l’Ocse Pisa e le varie indagini internazionali. Si aggiunga che misurare gli apprendimenti degli studenti dopo un triennio di risparmi sconsiderati, che hanno “fatto cassa” sulla scuola dello Stato per un ammontare di 8 miliardi di euro e di un taglio di 140mila posti di lavoro, tra docenti (80mila) e Ata, in un Paese in cui il tema della valutazione non è mai stato affrontato con un minimo di investimento e di consapevolezza scientifica, di studio e di progettazione culturale, e per verificare la bontà o meno del sistema scolastico, è un po’ come passeggiare per Sarajevo cercando di coglierne la bellezza nel dicembre del ’95. Ancor di più, se si considera che i test Invalsi al loro esordio furono indicati dal governo Berlusconi (l’ideatore del “contenimento di spesa” nella scuola, di cui però l’attuale governo sembra essere il degno continuatore) come strumento indiretto di misurazione (e valutazione) della qualità dell’istituto e degli insegnanti che vi lavorano attraverso le competenze dei ragazzi. Risulta perciò ulteriormente sconcertante la giustificazione ai test fornita da Ajello al Corriere della Sera: «Quando sono informati sul livello di preparazione dei propri allievi e i punti di criticità, gli operatori della singola scuola potranno progettare interventi didattici mirati». Quasi un milione di docenti delle scuole di ogni ordine e grado, dunque, fino a prima dell'istituzione dei test, hanno brancolato inconsapevoli rispetto agli apprendimenti dei propri studenti. Non lo sapevate? 
			L’impressione è che si tratti da una parte di un’operazione di 
			maquillage in salsa pseudo-europea, che coglie la scuola totalmente 
			impreparata, sia dal punto di vista delle risorse professionali da 
			mettere in campo che di quelle economiche. Queste “prove tecniche di 
			misurazione” (così come sono state concepite: senza rendicontazione 
			precisa e, soprattutto, senza azioni conseguenti; per dire 
			“presente!” in un’Europa le cui richieste sono garanzia di 
			legittimità delle istanze che le determinano) hanno inoltre un 
			proprio costo specifico, che potrebbe finire di gravare 
			ulteriormente sui massacrati bilanci delle scuole. E gravano 
			comunque su un
			
			bilancio dello Stato che, in un periodo di crisi come questo, 
			non può permettersi di convogliare risorse su operazioni dalla 
			dubbia riuscita. Sfatato dallo stesso Tremonti il mito della
			
			lettera che ci chiedeva di intervenire sulle nostre scuole con i 
			test Invalsi, non c’è stato un ministro – da Gelmini a Giannini – 
			che si sia preso la briga di prendere in considerazione le 
			argomentazioni avanzate contro i test. Anzi, Giannini (comunicatrice 
			spregiudicata, fiduciosa della diffusa impreparazione di molti 
			docenti rispetto alle sue evocazioni giuridiche) ha potuto affermare 
			qualche giorno fa: ''La valutazione è una parola d'ordine a cui non 
			posso e non devo rinunciare. Invalsi è uno strumento importante, 
			sicuramente come tutte le cose può essere migliorato ma prima di 
			tutto va messo a sistema (…) C'era un regolamento che non era stato 
			attuato e noi lo stiamo attuando. Dall'anno scolastico 2014-2015 
			diventerà diffuso in tutte le scuole italiane”. ''Io credo che più 
			che discutere e contestare l'esistente si debba lavorare affinché lo 
			strumento di valutazione diventi la chiave di soluzione e di 
			cambiamento radicale della figura dell'insegnante e della sua 
			valorizzazione e possibilità di premiare chi lavora di più, sia a 
			livello economico che funzionale, e di non premiare chi lavora di 
			meno, perché le due cose hanno una complementarietà inscindibile''. 
			Il regolamento di cui parla è quello
			
			sulla valutazione, approvato lo scorso luglio nel silenzio 
			generale, di cui mi occuperò in uno dei prossimi interventi. 
			Immobile, per mancanza di fondi e di protagonisti. I test Invalsi ne 
			sarebbero un’attuazione. Si ribadisce la logica del premio, della 
			meritocrazia, della valutazione come strumento di selezione e di 
			determinazione del profilo professionale del docente. Attenzione. Veniamo dunque al punto. L’ostentato dilettantismo dell’operazione e l’incuria nei confronti delle critiche restituisce l'impressione che quell’affrettato maquillage avesse anche la necessità di accompagnare altre intenzioni: a partire dalle esplicitazioni di Gelmini per giungere alle ultime esternazioni di Giannini sulla formazione coatta dei docenti i cui studenti non abbiano raggiunto la sufficienza ai test. In questo contesto non è peregrino – e non perché i docenti soffrano di manie di persecuzione – attribuire a tutta l’operazione lo stigma di una valutazione di matrice da sub-cultura punitiva, nella quale trasversalmente i governi degli ultimi lustri hanno sembrerebbe volontariamente deciso di confinare il tema. A tutto ciò va aggiunta la comune percezione che operazioni pedestri e da carota e bastone – promesse o concretizzate – del passato hanno indotto negli insegnanti: grazie all’accostamento indebitamente operato tra misurazione degli apprendimenti e valutazione degli istituti scolastici (tutti i passati e presenti progetti di valutazione delle scuole, e anche degli insegnanti, consideravano i risultati agli Invalsi come indicatore di efficacia) il sospetto della scuola nei confronti dell’operazione non è incomprensibile. Né peregrina è l’ipotesi che scorciatoie simili possano essere assunte in ossequio alla merito-valuto-premio-mania imperante da qualche anno a questa parte. Senza riflessione, senza studio, senza elaborazione. 
			Aggiungiamo che Invalsi significa business: basti pensare allo zelo 
			di alcune case editrici che – senza un minino di riflessione e di 
			confronto con il mondo della scuola – hanno provveduto 
			affannosamente alla compilazione di sezioni dedicate alle prove 
			Invalsi come nuova fonte di appeal, confidando nell’acquiescenza 
			acritica di una parte degli insegnanti (comodamente piegati al 
			teaching for testing, in barba ai saperi critico-analitici e alla 
			tradizione pedagogica italiana). Il rischio reale è che, senza la 
			necessaria preparazione, si ibridi ulteriormente la didattica, da 
			una parte continuando a seguire l’impostazione tradizionale, 
			dall’altra volendo insistere nell’imposizione di test, senza 
			riflettere sulle condizioni e sulle strategie attraverso le quali si 
			fa oggi scuola in Italia. Un bricolage pericoloso, che potrebbe 
			avere, tra i vari effetti, un ulteriore abbassamento dei livelli. 
			Noi, gli esperti del settore, i docenti, ci siamo fatti dettare 
			l’agenda – senza una normativa di riferimento – consentendo il lento 
			inserimento nella pratica didattica di elementi che lentamente e 
			implacabilmente hanno plasmato lo stile pedagogico di molti di noi, 
			il modo di lavorare, la determinazione delle prove di verifica. Per imporre alle scuole, e in particolare agli Organi Collegiali, in materia didattica un obbligo, occorre sempre un fondamento legislativo. Gli Invalsi sono normati da direttive ministeriali, previste dall’art. 3 comma 2 del dlgsl 286/04, in attuazione della legge delega 53/03 (Moratti) che istituì l’Invalsi. L’avv. Corrado Mauceri (Per la Scuola della Repubblica) afferma che esiste un “contrasto tra la norma che conferisce al ministro la facoltà di emanare direttive invasive dell’ambito dell’attività didattica con il principio della libertà di insegnamento, costituzionalmente riconosciuto, che attribuisce l’attività didattica agli OOCC e in particolare al collegio dei docenti. Questa contraddizione deve essere interpretata in modo conforme ai principi costituzionali, poiché tra i due schemi normativi prevale il principio costituzionale della libertà di insegnamenti rispetto alle direttive, che hanno carattere indicativo e non vincolante”. 
			Per quanto riguarda l’obbligatorietà delle prove alla fine del 
			biennio della secondaria di II grado, nel 2011, dopo una lettera 
			(sic!) inviata agli istituti scolastici dall’allora presidente 
			Invalsi, Roberto Cipollone, in cui si sottolineava l’obbligatorietà 
			delle prove,
			
			si pronunciò l’avvocato dello Stato Paolucci, che affermò che le 
			scuole non dovevano necessariamente essere sede delle prove e ne 
			determinò l’incompetenza rispetto alla materia, poiché nessuna legge 
			affidava loro questa competenza. Intervenne così l’art. 51 del dl 5/ 
			2012 che prevede, al secondo comma: “Le istituzioni scolastiche 
			partecipano, come attività ordinaria d’istituto, alle rilevazioni 
			nazionali degli apprendimenti degli studenti, di cui all’articolo 1, 
			comma 5, del decreto-legge 7 settembre 2007, n. 147, convertito, con 
			modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2007, n. 176”. Si chiama 
			decreto-legge “semplificazione”, ed effettivamente ha tanto 
			semplificato la fatica che il governo avrebbe dovuto fare se fosse 
			arrivato a spiegare e far accettare alla scuola questa norma con 
			pratiche di ascolto e di dialogo con le componenti coinvolte. A 
			proposito dell’art. 51 del dl 5/12, Mauceri chiarisce: “Si tratta di 
			una disposizione formulata in modo ambiguo, ma che certamente non 
			afferma l’obbligatorietà dei docenti a svolgere tale specifica 
			attività a prescindere dalle delibere dei Collegi, né, tanto meno, 
			l’obbligo di questi ultimi di deliberarle. Poiché l’anno scorso era 
			stato a lungo dibattuto proprio di vincoli e la questione si è 
			riproposta anche quest’anno, se il legislatore avesse voluto 
			stabilire l’obbligatorietà delle prove Invalsi, avrebbe potuto 
			affermarla esplicitamente. Il legislatore si è invece limitato a 
			qualificare dette prove come attività ordinaria di istituto; si 
			tratta in sostanza di una norma attributiva di una competenza alle 
			istituzioni scolastiche; il problema dell’obbligatorietà della 
			partecipazione dei docenti a dette prove non è quindi risolto da 
			tale disposizione”. Il dl 5/12 corregge, casomai, il vulnus 
			segnalato da Paolucci. Ciò non toglie che, per rendere l’Invalsi 
			vincolante, occorra una delibera del Collegio dei docenti, che – 
			nella dimensione della volontà collettiva su temi di competenza 
			esclusiva – contempera il principio della libertà di insegnamento, 
			costituzionalmente determinato. È ancora nelle nostre mani, dunque, 
			la scelta: anche nella necessità di animare la discussione sugli 
			Invalsi non in maggio, quando tutto è già definito; ma in settembre, 
			quando si votano le attività nei collegi dei docenti. 
			Duplice il problema. In primo luogo il dislivello tra le prestazioni 
			di aree differenti del Paese. Si pensa davvero (e in buona fede) che 
			una scuola nuova e migliore possa nascere da test omologanti da 
			Trento a Caltanissetta, da Crotone a Sondrio? So che don Milani in 
			questo periodo non va di moda. Ma è sempre attuale la sua frase: 
			“Non c’è ingiustizia peggiore che fare parti uguali tra diseguali“. 
			E, a proposito: ho sentito con le mie orecchie una collaboratrice 
			dell’Invalsi affermare che l’erogazione di prove identiche a tutti 
			gli alunni del secondo anno di ogni segmento dell’istruzione 
			superiore sarebbe un segno di democrazia. Le parole hanno davvero 
			perso la loro significatività: non c’è democrazia nel dislivello 
			abissale tra istruzione liceale e professionale, testimoniata da 
			livelli di apprendimento e di dispersione estremamente disomogenei. 
			E nemmeno nel fatto che il segmento più debole – l’istruzione 
			professionale, in cui confluisce la maggior parte di svantaggiati 
			socialmente, di migranti, di diversamente abili – sia il settore 
			meno tutelato dalla “riforma” Gelmini.  
 Marina Boscaino è docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll'Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.  |