"La scuola non serve a niente"
Ma possiamo ancora salvarla
Nel nuovo volume della serie di Repubblica e
Laterza "iLibra", Andrea Bajani
spiega perché l'istruzione deve rinnovarsi, ripartendo dallo Stato e
dalle parole
di Antonello Guerrera,
la Repubblica
3.5.2014
La scuola?
Non serve a niente. Non è solo un diffuso e stucchevole stereotipo,
ma anche il titolo
dell’ultimo, graffiante libro di Andrea Bajani, arricchito dai
contributi, tra gli altri, di Massimo Recalcati, Mariapia Veladiano
e Marco Lodoli. La scuola non serve a niente (in vendita in
edicola, libreria e
qui in formato ebook) è sicuramente una forbita provocazione del
38enne scrittore, che sviscera le lacune dell’istruzione italiana,
oggi sempre più abbandonata dagli studenti, come mostrano ricchi
video, grafici e statistiche allegati al volume. Ma è anche il denso
auspicio di un’istruzione che sia sì focolare di nozioni e
conoscenze, ma soprattutto faro brillante di una più lucida lettura
del mondo. Affinché alunni e studenti possano dare “un nome alle
cose” di questa sfuggente società liquida.
Insomma,
Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente»?
"È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società
per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire
da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto
“servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a
quello che c’è dentro la scuola".
E cosa c’è
dentro?
"C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le
nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del
mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo —
luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è
indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra".
E invece si
allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come lo chiama nel libro
una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di
rinunciatari passivi.
"È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e
religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una
mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola
italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a
“disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana.
Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e
fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano
conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità".
Perdita di
autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società
odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
"È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”.
Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è
testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un
insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza
di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti,
alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto:
“L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore
passaggio fondamentale".
Quale?
"L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve
aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo
ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve
avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare".
Invece,
l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
"Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano
state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da
un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento".
Riforme che
tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido
paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è
ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e
responsabilizza gli studenti.
"Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un
rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di
prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e
rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso
critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece,
si è sviluppata una passività sempre più marcata".
Per questo
lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
"Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari
li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose,
che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi
sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere,
per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove
hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza
il filtro della scuola, è merce senza valore”.