Dibattito
Test Invalsi: cosa c'è che non va Poco supporto alle scuole. Domande scadenti. Nessun questionario per conoscere meglio genitori, studenti e insegnanti. Sovrapposizione fra prove nazionali e internazionali. Così da 30 anni le valutazioni standard dicono sempre le stesse cose delle nostre scuole. Senza che per questo l'educazione migliori. Ecco dove bisognerebbe intervenire, secondo due grandi esperti di Francesca Sironi, L'Espresso 9.5.2014
È un rito che si ripete ogni anno. Col suo corredo di stress, fatica
e proteste. I test Invalsi, introdotti per la prima volta 13 anni fa
e diventati d'obbligo per tutti gli studenti italiani, dalle
elementari alle superiori, catalizzano battaglie e speranze come
pochi altri aspetti della scuola dell'obbligo. Valutare infatti è
difficile. E se la misura viene imposta dall'alto può risultare
odiosa. Quest'anno alla guida dell'ente è arrivata una nuova
presidente, Anna Maria Ajello, che
promette di voler cambiare le cose e di ascoltare i pareri di
chi dissente. “l'Espresso” ha chiesto a due esperti di provare a
spiegare, concretamente, cosa c'è che non va in queste prove. E come
potrebbero migliorare. Così
Bruno Losito , docente a Scienze della formazione all'Università
di Roma Tre e per 15 anni responsabile dei quiz internazionali
dell'Invalsi, e
Clotilde Pontecorvo , professore emerito di Psicologia evolutiva
alla Sapienza, raccontano cosa servirebbe, secondo loro, per rendere
i test più giusti ed esatti. E quindi forse più benvoluti.
«L'aspetto forse più disperante, dei test Invalsi, è che gli
elementi di fondo fotografati dai risultati di oggi sono gli stessi
degli anni '70», inizia Losito: «Gli esiti nazionali sono oltremodo
prevedibili: la distanza del Sud dal Nord, l'arretratezza delle
regioni meridionali … Uno si chiede a cosa serve continuare a
insistere sulla valutazione se poi non cambia niente. È frustrante».
«Io c'ero, 30 anni fa, nella squadra che ha avviato le prime prove
standard per misurare le competenze degli alunni», racconta
Pontecorvo: «E in effetti ciò che scoprimmo allora a livello
nazionale è purtroppo quello che emerge ancora oggi: le
ineguaglianze derivano dalla collocazione territoriale». Ma è colpa
dei test se alle loro domande gli studenti falliscono a seconda di
dove sono nati? O della politica che non interviene a riguardo?
«Bisognerebbe definire a cosa servono i quiz», risponde Losito: «Se
servono per programmare politiche nazionali oppure piuttosto per
permettere ai docenti della singola scuola di intervenire sulle
carenze. Ma per questo ci sarebbe bisogno di supportare le
classi, dare loro esperti, fondi, tempo. Da 13 anni ormai le prove
Invalsi sono entrate nelle scuole. Perché non finanziare una ricerca
che studi e analizzi sul serio se sono servite a qualcosa?
Se a professori e dirigenti scolastici sono state utili per cambiare
oppure no? Se hanno fatto avviare miglioramenti oppure sono rimaste
nei cassetti?».
L'altro tema eternamente discusso riguardo alle prove è loro
sostanza. Di imbuti a crocette, fondamentalmente, domande chiuse a
cui rispondere attingendo alle proprie conoscenze di grammatica,
matematica, logica. Ma chiuse. «Io ho sempre difeso le prove
scritte», spiega Pontecorvo: «Ho insegnato per 15 anni in un liceo
classico e dalla mia esperienza, oltre che dai nostri studi, ho
sempre tratto l'idea che le prove scritte siano più oggettive delle
interrogazioni orali, nelle quali il docente mette per forza la sua
parte. L'interrogazione serve per interagire, approfondire, ma non è
la forma migliore per valutare. Certo, poi c'è prova scritta e prova
scritta». Ovvero c'è l'abisso che separa una composizione a soggetto
libero da un quiz, e da un quiz raffazzonato a uno studiato nel
dettaglio. «Gli attuali test Invalsi sono molto più “chiusi”
di quelli internazionali, paradossalmente», commenta Losito:
«E questo per un evidente problema di costi e di tempo: vogliono
fare prove universali, dirette a milioni di studenti, e correggerle
in pochi mesi per restituire i risultati alle scuole entro ottobre.
Così è impossibile, anche assumendo ricercatori precari. La verifica
delle risposte a domande aperte è uno dei costi maggiori nel budget
Invalsi. Ma sono anche le domande più importanti». Quindi? «È
davvero necessario sottoporre questi test a ogni alunno in ogni
classe ogni mese di maggio di ogni anno?», si chiede il
docente di Roma Tre: «Non sarebbe sufficiente proporre le prove con
cadenza biennale, per dare spazio a test più aperti, più complessi,
quindi a correzioni più attente, così come ad analisi più profonde
sui risultati da inviare ai docenti e ai dirigenti scolastici?»
C'è un altro vuoto nei mega-test che impegnano in questi giorni
bambini e ragazzi italiani. Ed è quello del contesto: «Anche qui,
assurdamente, i test internazionali sono più attenti dei nostri»,
spiega Losito, che ne è stato responsabile per 15 anni: «Insieme
alle domande di matematica e italiano c'è sempre un questionario
rivolto agli studenti e ai loro genitori, per poter confrontare i
risultati col contesto di provenienza degli alunni. Nelle prove
nazionali questo aspetto manca». «Bisognerebbe averlo chiaro, e
ribadirlo ogni volta: questi test servono a misurare. Non a
valutare», continua Pontecorvo. Sembra una differenza lessicale, più
che sostanziale, visto che il ministro che ha introdotto le prove,
Letizia Moratti, li chiamava per l'appunto “
strumenti di valutazione ”, e che i dirigenti scolastici
mostrano fieri i risultati sui siti web d'istituto se sono
eccellenti o li nascondono se sono scarsi. «Questo è un grave errore
delle istituzioni», afferma la docente della Sapienza: «Per
controllare e valutare sarebbero necessari molti altri valori che
ora non entrano nei risultati. E riguardano gli alunni, le loro
famiglie, la posizione della scuola, il contesto. Soprattutto non
servono per valutare gli insegnanti, come suggeriscono invece alcuni
dirigenti».
Nel 2012 l'istituto Invalsi ha speso complessivamente 24 milioni e
962 mila euro. Per i prossimi tempi calcola le sue necessità
finanziarie in 16 milioni e 960 mila euro all'anno. Di questi,
quattro serviranno per le prove universali nazionali; due per quelle
internazionali; 850 mila euro andranno a quelle campionarie; e due
milioni e mezzo infine serviranno a “supportare” le scuole nella
loro “autovalutazione”. «Il confronto internazionale è
indispensabile», sostiene Pontecorvo. «Ma nella fotografia
che dà del Paese a livello centrale si sovrappone agli esisti delle
prove nazionali», aggiunge Losito. Quindi? Si tratta di un
costoso doppione? «In parte sì», risponde il docente romano: «Ed è
una sovrapposizione che va risolta. Il campione selezionato per i
confronti internazionali probabilmente è troppo vasto. Si potrebbe
risparmiare ed avere ugualmente un parametro con cui confrontare i
nostri risultati a quelli degli altri Paesi dell'Ocse». L'ultimo rischio, il più avvertito, forse, dai docenti, riguarda le conseguenze che le prove hanno nelle classi. «I nostri studenti hanno un tasso altissimo di risposte non date», spiega Pontecorvo: «Ed è dovuto al fatto che non capiscono le domande. Non sono abituati a quell'impostazione, alla formulazione dei problemi proposta dagli standard internazionali. Il rischio è che gli insegnanti allora si riducano al “teaching to the test”, ovvero ad addestrare gli alunni a rispondere ai quiz piuttosto che a rafforzare le competenze di base che questi richiedono. Una prospettiva pedagogicamente orribile». Le prove intanto aumentano però, risicando tempo all'insegnamento, fra campioni, test nazionali, confronti internazionali e questionari vari. Richiedendo straordinari ai docenti per correggere e verificare: «Il rischio è che le classi arrivino a non sopportare più l'idea di doversi sottoporre ai test», racconta Losito: «Come già sta avvenendo in paesi come la Gran Bretagna. Nel 2005, quando chiamavamo le scuole per chiedere di partecipare a una prova internazionale non si tirava indietro nessuno. I miei colleghi di oggi dicono che ora chiamano e iniziano a trovare resistenze. Continuando così andranno in sovraccarico, e senza un serio incentivo per farlo». |