L’analisi realizzata da The Economist Intelligence Unit
e pubblicato da Pearson

Educazione, Italia indietro
anche «per colpa» delle famiglie

Al primo posto gli asiatici, noi al 25esimo su 40 (sorpassati dai francesi). Pesa la mancanza di un rapporto collaborativo fra insegnanti, alunni e genitori

di Antonella De Gregorio, Il Corriere della Sera scuola, 8.5.2014

I dati

La superclassifica «The learning curve» mette in relazione i dati più autorevoli e globali prodotti negli ultimi anni - dai risultati dei test OCSE-Pisa ai TIMSS, ai PIAAC - e una sessantina di diversi parametri: investimenti governativi, stipendi del personale docente, rapporto alunni-professori, senza tralasciare indicatori economici come il tasso di occupazione dei diplomati/laureati, il reddito percepito e il benessere generale di ogni Paese. In vetta, i Paesi asiatici, ma anche la Finlandia (passata dal primo al quinto posto), con sistemi educativi diversissimi tra loro, ma anche diversi punti in comune: a partire da una classe docente di alto livello e dalla forte centralità attribuita all’educazione, sia a livello politico che sociale. Prova ne sono non solo gli investimenti governativi (12% in Finlandia e 15% in Sud Corea del totale di spesa pubblica), ma anche l’equità con cui si accede alla formazione (in Finlandia l’Università è gratuita) o lo status sociale dei docenti.

 

Bassi in classifica

L’Italia va più male che bene: scivola verso il fondo (la Francia che alla precedente analisi risultava una posizione dietro, ci ha superati di due) perché - tanto per citare due mali riconosciuti del nostro sistema - investe meno di tutti in istruzione e ha un’alta percentuale di laureati disoccupati. È in media con gli altri Paesi quanto ad anni trascorsi nel sistema scolastico (fino ai 16 anni) e per stipendi degli insegnanti (in linea con quelli medi del paese). Ci favorisce il rapporto medio di alunni per docente nella scuola secondaria: 12, come in Francia e un po’ meno della Germania (13), di Corea e Regno Unito (16). Quanto a numero di laureati, siamo sullo stesso livello di Germania e Spagna (31% contro 29%), ma ben al di sotto del Regno Unito (50%). Tra i punti di forza del sistema italiano, l’ampia possibilità di scelta, per gli studenti, a qualsiasi livello formativo.

L’impegno delle famiglie

«Ma ci sono campi nei quali bisogna migliorare - spiega Gulli - a partire dallo “student engagement”: l’impegno dei ragazzi, il supporto delle famiglie». Non basta la competenza degli insegnanti, occorre che i genitori si informino, partecipino, pretendano di più, in uno spirito collaborativo, che agevoli il lavoro che si fa in classe, anziché contrapporsi. «Le prestazioni migliori si ottengono dove la formazione è considerata un valore prioritario nella crescita dei ragazzi». L’aspettativa che l’impegno venga premiato motiva parte del successo dei paesi asiatici: Corea del Sud, Giappone, Singapore e Hong Kong hanno in comune il «senso di responsabilità» che lega saldamente, lungo tutto il percorso educativo, insegnanti, alunni e genitori. Più attenzione ai risultati si traduce in più partecipazione e più ore sui libri. Assenze e ritardi - lo si è visto nelle ultime rilevazioni Pisa - correlano con le prestazioni peggiori (e quanto a lezioni saltate, peggio di noi fanno solo Argentina, Giordania e Turchia, ndr); mentre la capacità di focalizzare sugli obiettivi e di entusiasmarsi per i compiti assegnati portano per esempio - dicono le statistiche - a punteggi più alti in matematica.

Più formazione

«Non bisogna fermarsi alla sola analisi quantitativa - avverte però Gulli -. E vanno privilegiati obiettivi coerenti e di sistema: gli esiti positivi derivano da decisioni di lungo respiro, non certo da continui cambi di governi e strategie». E poi c’è il capitolo della formazione dei docenti, più importante ancora dei livelli retributivi - dice Gulli. «È vero che c’è una questione di prestigio sociale, come c’è una questione di strutture, che devono essere decenti, anche per comunicare ai ragazzi che la società intera è interessata e coinvolta nei processi educativi. Ma prima ancora bisogna formare, valorizzare e mettere i professori nelle condizione di operare al meglio: buoni docenti sono essenziali per un’educazione di alto livello, e bisogna trattarli come validi professionisti».

Competenze del XXI secolo

Una parte del report è focalizzata sul rapporto tra competenze di base (matematica, lettura e scienze) e le cosiddette «competenze chiave del XXI secolo» (alcune già testate nei Pisa, per esempio il problem solving; altre, come il collaborative learning, verranno introdotte nei Pisa 2015): importanti non per se stesse, ma correlate alle competenze tradizionali. In altre parole, senza una solida formazione di base si rivela difficile, e anche poco utile, possedere capacità di problem solving, di interagire socialmente o di lavorare in maniera collaborativa.

Imparare da adulti

Un ulteriore approfondimento è dedicato al mantenimento degli skills in età adulta. Il panorama è articolato: la Corea del Sud ottiene prestazioni migliori di tutti gli altri Paesi nei test PISA, TIMMS e PIRLS; tuttavia, superati i 20 anni d’età, le abilità della popolazione, secondo i risultati PIAAC (l’indagine approfondita dell’OCSE sulle competenze degli adulti) scende drasticamente. E qui sembra emergere il «rovescio della medaglia» dei sistemi asiatici: un sistema scolastico nozionistico e competitivo, basato sul raggiungimento e la valutazione di obiettivi rigidi, sembrerebbe non assicurare la capacità di mantenere le competenze acquisite. Risultati eccellenti, invece, per i paesi scandinavi. In generale però emerge che sia quasi impossibile un’educazione in età adulta che non poggi su una solida formazione di base.

Migliorare si può

La posta in gioco è altissima. Presentando il nuovo rapporto, Michael Barber (consulente per l’educazione di Pearson e prima ancora di Tony Blair) ha ricordato che metà della crescita economica nelle nazioni sviluppate, negli ultimi dieci anni, è imputabile al miglioramento delle conoscenze e delle competenze della forza lavoro. Il miglioramento è possibile, come dimostrano Germania e Tunisia. O la Polonia, che entra quest’anno nella top ten, passando dalla 14esima alla decima posizione; Israele, da numero 29 a 17. Ma più del denaro investito è fondamentale la considerazione di cui gode la scuola nella comunità.