OPINIONI. Un’Assemblea Costituente per la scuola di Paolo Giordano, Il Corriere della Sera 28.5.2014 Nella gestione di ogni emergenza si distinguono una componente «veloce» e una più «lenta». La politica, per sua vocazione, dimostra maggiore talento nell’occuparsi di quella «veloce». Inquieta com’è, segue il volgere della brezza mediatica e spesso, dopo il fermento iniziale, tralascia di apportare quelle misure che permettono un risanamento profondo e duraturo. Un esempio recente su tutti: l’Aquila del dopo terremoto. Non c’è dubbio che la scuola italiana si trovi in uno stato di emergenza. Non nel post ma dentro un sisma. Lo sanno empiricamente coloro che ci studiano e lavorano ogni giorno, e lo confermano con freddezza i dati (si vedano, per tutti, quelli disponibili su www.oecd.org). Il governo attuale ha dimostrato un certo slancio verso la componente «veloce» del problema. La messa in sicurezza di parte delle strutture oscenamente inadeguate che ospitano ogni giorno bambini e ragazzi era auspicata da tempo e, forse, comincerà. Il ministro Giannini, poi, annuncia un programma graduale di inserimento dei docenti precari e al contempo si interroga su come restituire dignità agli insegnanti tutti, dopo una fase lunga di stasi e confusione che ha bruciato o quasi l’entusiasmo di una generazione, obbligandola a percorsi astrusi le cui regole cambiavano di anno in anno. È doveroso, tuttavia, richiamare l’attenzione su una componente più lenta e inafferrabile dell’emergenza scolastica, che ha a che fare non troppo con l’ordinamento, ma con i metodi e i contenuti. Possiamo ormai affermare con certezza che è avvenuto un cambiamento culturale significativo e generalizzato: la forma mentis dei ragazzi in età scolare è più lontana dalla mia di quanto la mia non lo fosse da quella dei miei nonni. In dieci anni sono mutati i meccanismi di apprendimento, i tempi di concentrazione, la struttura stessa del ragionamento critico. Nessuno di noi ne capisce ancora abbastanza. Ciò che sappiamo, però, è che non si tratta di un naturale avvicendamento, della consueta frizione fra mondo dei padri e mondo dei figli, e che non saranno l’introduzione delle lavagne interattive né l’aumento delle ore di informatica a colmare il divario. In un attimo si è rivelato obsoleto perfino definire obsoleti i programmi scolastici in atto e le metodologie applicate, quasi in ogni ambito: in italiano e nelle lingue straniere, in matematica e in storia dell’arte, in chimica e nelle materie tecniche. Se alle elementari l’impalcatura ancora faticosamente regge, nelle medie inferiori e superiori lo scollamento fra i ragazzi e cosa e come imparano si fa drammatico. La scuola di oggi assomiglia sempre di più per loro a uno di quei classici della letteratura che comunicano ormai a pochissimi, a causa dell’eccesso di descrizioni, del linguaggio troppo aulico, dello sfoggio di nozionismo. Il rischio connaturato a una situazione del genere è alto: un’istruzione che non parla ai più diventa il mezzo privilegiato per il perpetuarsi (e l’aggravarsi) dell’ineguaglianza sociale. Per decenni, oltre che un vanto, la scuola pubblica è stata per l’Italia uno strumento potente di unificazione. Se abbandonata a se stessa, a programmi e linguaggi ormai muti, si trasformerà nel suo esatto contrario: nel garante più severo della disparità. È tempo, perciò — mentre ci si assicura che i soffitti gonfi di umidità non crollino sulle teste degli studenti —, di creare una vera e propria Assemblea Costituente della scuola, alla quale partecipino non solo gli insegnanti, gli allievi, i dirigenti scolastici, i politici e i sindacati, ma anche psicologi, filosofi ed esperti di ogni settore: tutti insieme per tentare un’interpretazione del mutamento in corso e l’abbozzo di una nuova strada, congeniale al pensiero dei più giovani. Bisogna iniziare subito, prima che il venticello mediatico del rinnovamento giri a sfavore e lasci la componente «lenta» dell’emergenza scolastica, ancora una volta, negletta.
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