Born free. A proposito di riforme
della Pubblica Amministrazione ed altro…
di Franco De Anna,
Pavone Risorse
25.5.2014
Le prossime elezioni in
Sudafrica vedranno la partecipazione di quelli che già sono stati
individuati come born free. Si tratta della prima generazione
di elettori che sono nati dopo la fine dell’apartheid e dunque non
ne hanno sperimentato direttamente e consapevolmente né
l’oppressione, né la vittoriosa resistenza. Vi è molta curiosità per
misurarne e comprenderne i comportamenti politici.
Con tutte le ovvie differenze, stiamo vivendo in Italia una fase
simile: in questi ultimi anni sono chiamate a decidere la politica
del Paese generazioni che non hanno vissuto consapevolmente e
partecipativamente la faglia costituita dalla fine della
(cosiddetta) Prima Repubblica, entro la quale facciamo precipitare
molte cose diverse: dal decadere dei grandi partiti di massa,
all’esplodere del sistema corruttivo, alla fine sostanziale del
bipolarismo imperfetto legato alla guerra fredda ed alla esclusione
dei comunisti dalle possibilità di Governo, alle suggestioni di un
“presidenzialismo di fatto” che ha incentrato sulla leadership
personalizzata le modalità della politica, al peso crescente e quasi
esclusivo della comunicazione mediatica. Nelle ultime scadenze
elettorali sono andate al voto generazioni “nate dopo quella
faglia”, e senza riferimenti vissuti al “prima”. Dunque senza
“memorie esperienziali”. (Su quelle storiche si aprirebbe problema
che riguarda anche la scuola)
Lascio ai pazienti lettori l’impegno a ricostruire, da tale realtà,
sensate considerazioni circa le possibili relazioni funzionali
(comunque complesse) tra essa e i comportamenti soggettivi.
Scuole di pensiero più
recenti e preoccupate della complessa fenomenologia che per comodità
raggruppiamo nella categoria della postmodernità,
sottolineano come lo “schiacciamento” del tempo ed anzi
l’annullamento del suo trascorrere in un permanente presente senza
passaggio tra passato e futuro decostruiscano una categorizzazione,
cara a tanti appassionati di storia, polarizzata sulla distinzione e
la dialettica tra la “lunga durata” (le strutture profonde e di
mutamento lento) e gli “eventi” (la dinamica presente, mutevole,
fatta di episodi e accadimenti, scelte e personaggi).
Entro tale decostruzione (quasi come se fosse che le strutture
profonde della formazione sociale si annullino negli eventi) sono
rielaborati concetti interpretativi (interessanti, ma sui quali
spesso indulgiamo senza approfondire..) come la “società liquida”; o
la società della “fretta e della accelerazione”, nella quale la
logica della “derivata prima”, del differenziale, prevale su quella
del traguardo, della meta, del processo.
I riflessi vi sono anche sul piano soggettivo: alla “pazienza del
concetto” (di lenta elaborazione..) si sostituisce l’immediatezza
disponibile e iterattitva del “taglia, incolla, ritaglia, reincolla”,
ed alla dialettica Legge e Desiderio (direbbe Recalcati) si
sostituisce il consumo compulsivo e ripetitivo della “novità” sempre
rieditata, con l’annullamento dello stesso Desiderio
Pensieri ed argomenti di grande interesse e che si offrono a
necessarie e attente falsificazioni, piuttosto cha a disinvolte e
apodittiche interpretazioni autentiche del “nuovo”. Ma questo è un
impegno che va oltre queste note.
Invece tutto ciò sembra
offrirsi contingentemente ad una sorta di rassegnata convalida
indiretta quando si guardi alle proposte che vengono offerte alla
nostra riflessione circa le prospettive delle riforme necessarie al
Paese e che tutti (anche i coloro che un tempo sarebbero stati
indicati come conservatori) reclamano come fondamentali. Un buon
esempio è offerto dalla questione della riforma della Pubblica
Amministrazione, con tanto di consultazione in atto.
Il carattere esemplare, rispetto alla problematica precedente
(memoria, liquidità, schiacciamento del tempo..) è rinforzato dal
fatto che proprio le strutture e l’organizzazione dello Stato, nei
loro riferimenti essenziali (il rapporto dello Stato con i
cittadini, con la “politica” e con l’economia), rappresentano
“strutture profonde” della storia.
Infatti molte delle questioni e delle proposte che articolano i
numerosi punti offerti alla riflessione e alla consultazione
promossa dal Presidente del Consiglio e dal Ministro della Funzione
Pubblica, hanno una storia che accompagna le tappe fondamentali
dello sviluppo dello Stato italiano dalla sua nascita ad oggi.
Ma ciò sarebbe solo un dettaglio storico (il richiamo a strutture
profonde e di lunga durata). Ciò che più mi colpisce e che esse
ebbero una rappresentazione esplicita e “attualizzata” (pronte cioè
ad essere oggetto del mutamento “evenementiale”) fin dalla fine
degli anni ’80, e che di ciò, nelle stesse proposte attuali sembra
non vi sia alcuna consapevolezza. (i “riformatori” sembrano avere
una memoria davvero corta, come se venissero al mondo solo oggi.
Vedi incipit…)
Naturalmente se ciò fosse dovuto alla necessità contingente del
predicare un “nuovismo politico”, potrei comprendere, (sia pure con
qualche fastidio). Il timore invece è che tutto ciò avvalori la
dimensione della “liquidità” degli approcci (vedi premessa). E che
ciò caratterizzi sia chi propone e vorrebbe realizzare alcune
riforme, sia chi ad esse si opponga (come è legittimo che sia). Gli
uni e gli altri unificati da una comune “leggerezza” argomentativa e
superficialità di consapevolezze degli “spessori strutturali” messi
in gioco (il mipiacenonmipiaccismo).
In definitiva (ma spero il contrario..) gli uni e gli altri messi di
fronte alla incapacità di modificare strutture profonde e, al
massimo, capaci di esplorare processi cosmetici dai quali emergono
comunque vincitori (e silenziosi. Anzi vincitori “perché”
silenziosi) i grandi interpeti delle istanze conservative dei grandi
apparati della Amministrazione Pubblica. Il top e middle management
della P.A. e la potenzialità di alleanze conservative lungo l’intera
piramide amministrativa, dal commesso all’impiegato “di concetto”.
Vorrei sostenere e
articolare l’affermazione che lo status quaestionis della
riforma della PA fosse definito e comprensibile, almeno vent’anni
fa, e non per difficili e profonde analisi ma con la emersione
evidente di una realtà che poneva all’ordine del giorno una istanza
riformatrice (non necessariamente univoca: la politica si esprime
sempre con almeno un grado di libertà nelle sue alternative.
Dovremmo abituarci a rammentare che il “riformismo” ha sempre volti
plurimi. Solo la conservazione ha il volto univoco del “già
esistente”, e spesso lo tiene nascosto).
Ovviamente non posso che limitarmi ad un elenco di
osservazioni/considerazioni alle quali non è difficile raccordare
molte delle proposte che sono in discussione e forse rielaborane una
consapevolezza più adeguata alla loro storia e complessità.
Nel punto di flesso del decennio ‘80/’90 risultavano evidenti e
conclamati per qualunque attento osservatore processi più che maturi
e sedimentati nel profondo. Tento di schematizzare di seguito.
Innanzi tutto la più che evidente estinzione del
modello che aveva costituito la dorsale fondamentale dello sviluppo
economico e industriale del Paese, dall’uscita delle miserie del
dopoguerra al miracolo economico: Un sistema di economia mista con
il diretto impegno pubblico (dello Stato) nella produzione dei
fondamentali di base (dalla siderurgia, all’energia, alla chimica).
In quel modello misto aveva trovato condizioni di affermazione e
convenienza lo sviluppo manifatturiero italiano che caratterizzava
la “struttura” economica del Paese.
Non si può qui ricostruire una storia economica: ma ricordo
semplicemente che una parte della “organizzazione dello Stato”
(intesa in senso lato: dai ministeri economici a molti Enti pubblici
ed esisteva un Ministero specifico per le partecipazioni statali..)
e una parte consistente del suo “potere” si manifestavano in
relazione proprio a quel “modello misto”.
Il lettore attento potrà ricostruire i nessi tra potere politico,
potere economico, convenienze e consenso sociale, che nelle loro
articolazioni, furono per anni “fisiologici” al funzionamento di
quel modello misto di economia che vede la sua fine conclamata (i
processi profondi erano in realtà presenti da tempo..) nella svolta
del decennio ’80-’90. E il consumarsi del modello (lo stato
imprenditore /finanziatore) destruttura progressivamente anche quei
nessi di potere e consenso.
Il passaggio da Stato/imprenditore a Stato/
distributore/dispensatore , modifica profondamente la mission
e finanche l’etica della amministrazione pubblica
In secondo luogo, dalla fine degli anni ’70 si era
andata completando la costruzione del welfare nel nostro Paese, in
particolare con il consolidamento del sistema sanitario, con la
realizzazione della scuola di massa, con il sistema previdenziale.
Il progressivo allargamento delle funzioni dello Stato accompagna la
storia nazionale (si pensi che la spesa dello stato in 150 anni di
storia passa del 10% al 50% del PIL). Ma il processo del
consolidarsi relativo (con le specificità nazionali) di un completo
e moderno sistema di welfare, è sconnesso con il processo di
ristrutturazione della amministrazione pubblica.
Nella filosofia profonda di quest’ultima rimane irrisolta la
distinzione tra “funzione autoritativa” di ispirazione giuridica e
“funzione di erogazione” di servizi che reclama invece “cultura di
prodotto”.
La crisi fiscale dello Stato dagli anni ’70 in poi è fenomeno che
investe tutto l’occidente. Ma una componente specifica nazionale di
tale crisi è certamente quella della estraneità della cultura
amministrativa rispetto ai parametri della efficienza ed economicità
nella erogazione produzione dei servizi pubblici.
In terzo luogo ricordo che addirittura dagli anni ’30
del secolo scorso l’estensione e la complessificazione delle
funzioni dello Stato nelle due direzioni indicate (lo stato
imprenditore e lo stato erogatore di servizi) invece che
ristrutturazioni profonde degli assetti della PA ha prodotto la
proliferazione (spesso senza controllo) degli Enti Pubblici,
attraverso la quale anche attività di “produzione” (dunque
potenzialmente legate e criteri di produttività) finirono per essere
ricondotte entro “l’altro” modello di legittimità e di normazione:
non il diritto comune, ma il formalismo del diritto amministrativo.
Alcuni capisaldi della riforma De Stefani della P.A. (1923) sono
sostanzialmente in vigore ancora oggi (dalla struttura delle
carriere agli organici per legge, alla funzione di requisito di
accesso del “titolo di studio” nelle assunzioni. Non conta ciò che
sai fare, ma che tu abbia un diploma o una laurea …Per tacere del
ruolo della Ragioneria Generale)
Dovremmo sempre ricordare che la Pubblica Amministrazione ha assunto
carattere “plurale”. La definizione formale di “amministrazioni
pubbliche” è la seguente: per amministrazioni pubbliche si intendono
tutte le amministrazioni dello Stato, i ministeri della repubblica e
le loro articolazioni territoriali (motorizzazione civile, direzioni
territoriali del lavoro, uffici amministrativi presso i tribunali,
ecc.), gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni
educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento
autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e
loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli
Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti
pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le
amministrazioni, le aziende sanitarie locali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale… (Dgls 165/2001).
Dunque una pluralità di soggetti, di produzioni di beni e servizi,
spesso con elevato livello di specificità. Mentre la stessa cura
definitoria, e gran parte della cultura comune, lascia trasparire
una forte spinta a predicare e praticare criteri di omogeneità
normativa, contrattuale, organizzativa, gestionale.
Forse un aneddoto personale richiama più efficacemente una
problematica che richiederebbe altrimenti analisi complesse. Il
primo corso di formazione che frequentai alla Scuola Superiore di
Pubblica Amministrazione vedeva riuniti Dirigenti provenienti da
tanti settori: ricordo la scuola, i ministeri, il personale civile
del Ministero della Difesa, l’Archivio di Stato, finanche l’Autorità
di Bacino del Piave. Al momento delle reciproche presentazioni
risultai l’unico ad avere una formazione tecnico-scientifica. Tutti
gli altri lauree in campo giuridico. Naturalmente con ciò non voglio
certo proporre improprie gerarchie tra indirizzi di laurea; invece
sottolineare quella uniformità formativa rispetto alle specificità
produttive dei settori di provenienza e affidati alla loro
direzione. Ricordo le grandi difficoltà nella compilazione di
semplici repertori relativi alle attività reali concretamente svolte
da ciascuno nell’esercizio della funzione dirigente, correlandovi
ipotesi di valutazione di efficienza ed efficacia. Per tutti erano
“circolari da applicare”, “procedure da eseguire”, con parametri di
produttività evidentemente condizionati ex-ante. Per tutti, la
mission non era produrre un bene o un servizio, ma “un atto
amministrativo”.
Alla pluralità multiforme acquisita nelle sua dinamica storico reale
dalle amministrazioni pubbliche si sovrapponeva e si sovrappone una
fittizia uniformità di status, di cultura, e di “regole” formali
presidiate dal Diritto Amministrativo.
Processi storici
complessi come quelli accennati ( e mi scuso delle inevitabili
sintesi tranchant) hanno sedimentato e stratificato permanenze di
interessi, di culture professionali, di “caste”, di procedure
consolidate in “manuali operativi” incapaci di interpretare le nuove
produzioni e i nuovi compiti Spesso tali incrostazioni emergono come
questioni galleggianti, delle quali si ignorano gli ancoraggi
profondi e non si dà consapevolezza dei motivi che oppongono o
comunque limitano ogni tentativo di ricostruire altri “manuali
operativi” agili, semplificati, efficaci. Così spesso il dibattito
sulla PA si riduce a colpevolizzazioni delle improduttività
individuali e a esortazioni incapaci di incidere nella realtà.
Si pensi, come esempio della potenza di tali incrostazioni, al
grappolo di competenze esercitate da Ragioneria Generale dello
Stato, Corte dei Conti, Consiglio di Stato, sistema dei Tribunali
amministrativi… Oppure al rapporto che potrebbe esserci tra la
conclamata esigenza di sveltimento delle procedure amministrative e
una rigorosa delimitazione del rapporto tra Diritto Amministrativo e
Codice Civile. La questione della common law (di stile
anglosassone), invece del dualismo normativo è parte della storia
della nostra PA. (se ne parlò fin dagli inizi delle stato unitario).
E si offre ancora oggi come nodo” da sciogliere.
Ma le incrostazioni che permangono entro, sotto, e non ostante il
mutamento reale della storia producono alterazioni funzionali che
vanno bene al di là degli assetti formali. Il florilegio di incroci
nel cluster di competenze indicato, non solo rallenta e pregiudica
l’efficienza amministrativa, ma, per esempio, riconfigura nei fatti
il Consiglio di Stato da un lato come “ambìta sistemazione” della
casta amministrativa; dall’altro come un serbatoio di “consiglieri”
per una “casta politica” sempre più povera di competenze tecniche e
gestionali, che ai consiglieri vengono delegate. Un “potere entro il
potere” con il vantaggio dell’essere decisivo ma di non comparire in
primo piano.
Certo possiamo sempre chiedere ad un impiegato di un Ministero la
disponibilità alla mobilità, ed è giusto farlo. Ma forse ci si
abilita politicamente a porre anche tali questioni di dimensioni
micro, se le tessere del mosaico che ambiziosamente chiamiamo
“riforma della PA” sono in grado di ricomporre una immagine ed un
senso intellegibile e per il quale valga la pena di impegnarsi e di
discriminare le scelte.
Ciò che più mi
sconcerta, come sostenuto in apertura è che l’insieme delle
questioni qui faticosamente richiamate e schematizzate, rappresentò
evidenza problematica e critica più che matura circa vent’anni fa.
L’intera “seconda Repubblica” (per amor di sintesi sorvoliamo sulla
semantica effettiva) è trascorsa senza che a quell’intreccio si
ponesse mano almeno per tentare di dipanarlo. Il tentativo
complessivo della Legge 59/97 (Bassanini) è rimasto irrisolto; i
sistemi di valutazione delle organizzazioni e del personale sono in
sostanza da inventare e quando si sperimentano sono combattuti sia
esplicitamente che con l’adattamento opportunistico (a partire dal
“quartier generale”..); la pluralità delle strutture, delle
produzioni di beni e servizi della Pubbliche Amministrazioni non ha
trovato una sistematica specifica capace di interpretarne le
caratteristiche produttive (organizzazione, personale, gestione
economica) ed è stata ricondotta entro schemi che per voler essere
unitari sono “generici” (si veda il dlgs 165/2001 e modificazioni, e
poi il cosiddetto ”Decreto Brunetta”); la determinazione dei modelli
organizzativi rimane legata a procedure formali, normative, invece
di parametrarsi a scelte di efficacia ed efficienza (provate, per
stare a noi, ad applicare modelli di lean organisation
(ottimizzazione del flusso del valore) alla produzione della
graduatorie nell’amministrazione periferica della scuola…dovrete
misurarvi con il formalismo normato della organizzazione degli
uffici, con i mansionari del personale ripartiti, con i tempi decisi
altrove, ecc..ecc. ). E si potrebbe continuare l’elenco del “non
fatto”.
Il problema è che per ciascun irrisolto si sono annodate e
riannodate convenienze che collegano gli interessi dei vertici a
quelli minori, dal top management al commesso.
A tale irrisolto si sono invece sovrapposti accumulandosi altri
processi, come quelli della “moltiplicazione per gemmazione” del
paradigma amministrativo tradizionale con la sua dilatazione alle
amministrazioni locali, soprattutto regionali, che avrebbero invece
dovuto essere “sostitutive” sia per le competenze acquisite sia per
i modelli operativi da realizzare.
Il decentramento è stato assimilato e inverato, semplicemente come
l’allargamento della base della piramide del modello tradizionale
Vent’anni di stasi sono tanti, in una stagione di memoria corta e di
difficoltà a coltivare la “pazienza del concetto”.
Voglio solo indicare
alcune direzioni di approfondimento rispetto alle semplificazioni
(per qualche aspetto inevitabili) contenute nell’invito alla
consultazione sulla riforma della PA, che si vanno a sommare a molte
che credo siano implicite (e di più vasta portata) nelle note
precedenti.
1. Decostruire
il paradigma unitario della PA. La pluralità di
produzioni di beni e servizi implica esplorare il paradigma della
“specificità”, in particolare nelle seguenti direzioni : 1)
valutazione delle organizzazioni, dei dirigenti, del personale; 2)
delegificazione/denormazione dei modelli organizzativi e piena
responsabilità della architettura di questi ai produttori stessi,
evidentemente entro i parametri della legittimità; 3) Sviluppo della
contrattazione e della partecipazione su tutti gli aspetti
gestionali e di organizzazione del lavoro degli uffici e delle
strutture.
2. La
specificità va esplorata in particolare rispetto ai meccanismi
relativi al personale (formazione, accessi,
delegificazione effettiva del rapporto di lavoro). Sottolineo in
particolare la questione “formazione”. Occorre superare la
tradizione storica per la quale si entra nella Pubblica
Amministrazione con il titolo di studio (quale che sia) come chiave
di accesso e come operatore che disloca le carriere. Lavorare nella
Pubblica Amministrazione richiama oggi più che mai la necessità di
repertori di professionalità che oggi non hanno riscontro nel
sistema di formazione (Scuola, Università). E’ lavoro non semplice
organizzare tale formazione (non si crea una ENA dal nulla e in poco
tempo) ma occorre partire.
3.
Attenzione critica ai processi
(in atto da tempo) di “precarizzazione”
verso il basso e verso l’alto del personale della PA. (Dallo
spoil system dei dirigenti, ai contratti a termine con i quali si
cerca di ovviare agli organici “per legge”, nelle qualifiche
inferiori).
Per questi ultimi ricordare che i contratti a termine se possono
dare flessibilità implicano sempre un consistente rischio di
abbassare la qualità del lavoro, dell’impegno e della disponibilità
del lavoratore.. (esattamente il contrario di ciò che si invoca dai
pubblici dipendenti).
Inoltre la PA è caratterizzata da produzione a ciclo continuo. La
flessibilità dunque non ha risvolti produttivi, ma solo di costi.
E per altro si trova sempre un TAR che riafferma “diritti quesiti”,
graduatorie permanenti; o gruppi di pressione e politici sensibili
che procedono per sanatorie. Nessuno scandalo, ma certo così ogni
ragionamento su responsabilità, qualità, valutazione, modalità di
reclutamento legate alle competenze, diventano semplice flatus
vocis.
Ma attenzione anche alla precarizzazione dei dirigenti che è fonte
di molte ambiguità. Personalmente sono convinto che il meccanismo
dello spoil system funzioni a due condizioni:1) che si applichi al
top management; 2) che davvero implichi che il “decaduto” torni a
casa (cosa mai vista… ) e non in qualche confortevole
“sistemazione”, in attesa di tempi migliori.
Si sappia però che ciò che dovrebbe garantire la fedeltà del
dirigente alle linee guida definite dal responsabile politico ( e
dunque fondare la necessità dello spoil system) nel nostro paese si
iscrive in uno storico compromesso tra grande dirigenza
amministrativa e decisori politici, nel quale alla prima è toccato
il compito di garantire continuità operativa alla macchina dello
Stato, rispetto alla evanescenza e mobilità della seconda. Una
sorta di traduzione organizzativa della dinamica psicologica del
rapporto servo-padrone.
Per altro verso, il fatto che la produzione della Pubblica
Amministrazione abbia oggettivi caratteri di produzione a ciclo
continuo, rivela una problematica critica rispetto alla parallela
estensione dello spoil system anche al middle management.
Dal middle management in giù lungo la scala gerarchica assumono
infatti progressiva rilevanza le “competenze di prodotto” legate
alla continuità del ciclo produttivo stesso.
Ciò significa che piuttosto che di spoil system vi è necessità
fondamentale di meccanismi e sistemi di valutazione di tali figure.
(Per stare a noi si pensi ai Dirigenti Scolastici).
4.
Per
comprendere quanto sia fondamentale e discriminante la
questione della
valutazione dei dirigenti (al di là dello spoil system) e
quanto essa sia legata alla capacità di discriminare le specificità
delle Pubbliche Amministrazioni, e non al preteso paradigma
unitario (vedi il “brunetta”), rinvio il lettore a confrontare i
diversi strumenti di valutazione e le diverse esperienze nei settori
pubblici: dall’Agenas per il sistema sanitario, all’INPS, alla
Agenzia delle Entrate, all’INVALSI, ai sistemi degli Enti Locali….
Tutti tentano di costruire esperienze valutative capaci di
apprezzare le “diversità” che invece continuiamo a ricomprendere
nell’unico termine di PA.
E’ una analisi di estremo interesse che consente, tra l’altro, di
collocare più assennatamente e con parametri di comparazione, la
questione della funzione dell’INVALSI e della valutazione dei
dirigenti scolatici.
Mi rendo conto della
complessità degli argomenti e del sovrapporsi di più livelli di
analisi e di lettura rispetto a processi che affondano nella storia
del nostro Paese e che hanno i carattere della “lunga durata”
investendone gli assetti istituzionali, gli aggregati di interessi,
il modo in cui i cittadini si rapportano con la dimensione ed il
soggetto pubblico, e viceversa il modo in cui, concretamente si
esprime il governo degli italiani.
Non vi sono soluzioni
nelle semplificazioni, anche quando esse appaiano “ovvie” e sembrano
ridursi ad un possibile mi piace/non mi piace.
Chiedo scusa di tale complessità ma tale impegno impegno credo sia
dovuto ai “born free”, da parte di tutti noi che non lo siamo, e che
entro le faglie e dislocazioni (a volte drammatiche) di mezzo secolo
abbiamo dovuto attrezzare la dialettica e la pazienza del concetto.