Istruzione, l'urgenza di una riforma di Giorgio Israel, Il Messaggero 1.6.2014 Si ripete che dopo le elezioni nulla è uguale a prima. Non si vede perché questo non valga per l’istruzione che il presidente del Consiglio considera un settore strategico. Si ripete anche che è necessario restituire il primato alla politica, contro burocrazia e tecnocrazia, accantonando vecchi riti concertativi. Questa necessità più che altrove è impellente nell’istruzione e nel suo ministero, dove quei vizi si dispiegano in un infernale intreccio di “tavoli” di contrattazione tra buro-tecnocrazia e corporazioni, capace di mettere fuori gioco persino il ministro; e che sono più forti che mai: un tempo era “solo” l’intreccio tra dirigenza, sindacati, associazioni professionali ed esperti didattico-pedagogici, ora sono scesi in campo anche econometrici, statistici, psicometrici. Accanto a ciò, le agenzie di valutazione – l’Anvur per l’università e l’Invalsi per la scuola – sono riuscite a trasformare una necessaria autonomia operativa in potere autonomo e incontrollato. Al punto che l’università è ormai gestita interamente dall’Anvur e neppure il potere politico riesce a opporsi alla valanga di vacui adempimenti burocratici che sta conducendo alla disperazione chi vi opera. In questa situazione, non è una buona idea invocare un’assemblea costituente dell’istruzione: sarebbe l’istituzionalizzazione dei “tavoli” e di un processo infinito di mediazioni. Chi ha proposte sensate e competenti da fare le faccia, la politica rifletta e compia scelte (ovviamente contestabili), imponendo alla macchina amministrativa di realizzarle al servizio del sistema e non al suo comando. Dopo le elezioni europee si ripete fino alla noia che per salvare la costruzione europea occorre uscire da una gestione buro-tecnocratica che guarda solo ai parametri e ignora i problemi reali. Questo è ancor più vero per l’istruzione (e per la cultura), perché non sono in gioco solo aspetti gestionali, ma il senso stesso della funzione dell’istruzione, che svanisce se i contenuti disciplinari e culturali sono dissolti in mere questioni di tecniche di apprendimento e di obbiettivi quantitativi. Da questo punto di vista, bisogna combattere contro vecchi vizi duri a morire. Si è aperto un dibattito sul possibile anticipo dell’ingresso alle primarie a 5 anni, in alternativa al liceo corto di 4 anni. Su queste pagine abbiamo cautamente aperto a tale prospettiva sotto la condizione che non sia un pretesto per spolpare ulteriormente i già magri contenuti dell’insegnamento. Ed ecco che si avanza la proposta di interpretare tale anticipo come un’occasione per rivoluzionare l’insegnamento con la “tecnologia spinta”, il che sarebbe “richiesto” da bambini immersi nella rete fin dalla tenera età; cui si accompagnerebbe la trasformazione del biennio finale dei licei in un periodo “professionalizzante” gestito con le imprese e la formazione regionale. Viene da dire: se è così, meglio non farne nulla, perché è chiaro l’intento di smantellare l’istruzione superiore. Quanto alla “tecnologia spinta”, se non si vuol pensare che dietro vi siano solo interessi brutali, è evidente che chi fa queste proposte non ha la più pallida idea dei veri problemi dei nostri piccoli. Dovremmo piuttosto cospargerci il capo di cenere – e cambiare rotta – per star creando generazioni di bambini che a dieci anni non sanno allacciarsi le scarpe, non sanno tenere una penna in mano, e hanno ritardi oltre che nel controllo del corpo, nell’autonomia e nella solidità psicologica ed emotiva; ma sono istruiti ad avere come desiderio primario uno smartphone per scambiare gratis decine di messaggi al giorno. Eppure, c’è chi vaneggia di ridurli alla sola capacità di usare l’indice su un tablet.
Riteniamo invece che l’obbiettivo primario sia formare “persone bene
educate”, nel senso espresso dalla nota esperta statunitense Diane
Ravitch: «una persona che ha una mente ben fornita, plasmata dalla
lettura e dalla riflessione sulla storia, la scienza, la
letteratura, le arti e la politica, che ha appreso come spiegare le
idee e come ascoltare rispettosamente quelle altrui». Altro che
cavarsela affidando il miracolo ai tablet: servono giovani con una
buona formazione di base nella matematica e nelle scienze naturali,
che scrivano in buon italiano, che conoscano la cultura nazionale,
che conoscano oltre l’inglese almeno un’altra lingua, per essere il
modello del nuovo cittadino europeo, capace di contribuire alla
crescita di un tessuto culturale continentale che sfrutti fino in
fondo la ricchezza delle culture nazionali. Il nodo da affrontare è che in questi anni abbiamo strangolato il sistema dell’istruzione come nessun altro Paese europeo. Se non vogliamo o possiamo riqualificare il sistema, tanto vale ammettere che siamo costretti al peggio, e cioè a una valutazione cialtronesca. Ma non si faccia di vizio virtù. L’ultimo dei trucchi da abbandonare è contrabbandare scelte vecchie e cattive dietro lo slogan «l’Europa ce lo chiede». Non esistono normative europee cogenti in materia. Siamo noi, davanti alla nostra dissestata istruzione, a dover fare scelte responsabili e adeguate alla formazione di generazioni solide e culturalmente preparate, capaci di mantenere questo Paese in una posizione avanzata. |