Se 5 anni vi sembran pochi Tra anticipo, obbligo e identità debole…. Giancarlo Cerini e Cinzia Mion, Educazione & Scuola 22.6.2014 All’Università di Firenze, il 20 giugno, si è tenuto un focus tra le associazioni professionali (AIMC, MCE, CIDI, ANDIS, Proteo) per approfondire il tema dell’anticipo dell’obbligo scolastico a 5 anni, questione che è tornata di attualità nell’ambito della discussione sul riordino dei cicli e sulla possibilità di terminare il percorso scolastico a 18 anni. Ne è scaturito un vivace dibattito, grazie anche alla composizione del gruppo (docenti universitari, presidenti di associazioni, supervisori di tirocinio, insegnanti di scuola dell’infanzia, dirigenti scolastici) in cui si confrontavano vissuti professionali, prospettive di ricerca, analisi politiche. Certamente chi “vive” in prima persona le difficili condizioni organizzative della scuola dell’infanzia è portato a mettere in rilievo soprattutto le cattive notizie (sezioni numerose, scarsa compresenza, aggiornamento inesistente, insensibilità di molti colleghi), mentre chi si impegna nella formazione dei docenti nelle associazioni o nelle università “cerca” comunque di cogliere indizi positivi nelle esperienze migliori della scuola, ricche di professionalità e di impegno didattico.
Dalla parte della scuola dell’infanzia Certamente il pianeta “scuole dell’infanzia” ha una sua tradizione e identità positiva (contrassegnata da un ricco pensiero pedagogico: Aporti, Agazzi, Montessori, Ciari, Scurati, Malaguzzi e oltre fino ai giorni nostri), ma è frammentato in una rete di piccole strutture (oltre 22.000 scuole), a diversa gestione (60% dello Stato, 12% dei Comuni, 28% del privato sociale), molto vicine ai genitori e alle proprie comunità. E’ un punto di forza (quasi una scuola di prossimità), ma può determinarne anche la fragilità, lo scarso peso nelle politiche educative. Questa posizione spiega anche le anomalie del dibattito sulla questione dell’anticipo a 5 anni. Non siamo in presenza di una riflessione ariosa sulle caratteristiche dell’infanzia oggi, sui suoi bisogni di crescita (cognitiva, sociale, affettiva), sugli ambienti educativi più idonei ad accoglierla, ma di un’ideuzza di ripiego, quasi un’operazione aritmetica dettata dall’esigenza di far quadrare i conti dell’intero percorso scolastico, messo in subbuglio dall’ipotesi di un’uscita anticipata a 18 anni, anziché a 19. Così il gioco di società è diventato: dove togliere questo anno eccedente rispetto agli standard europei (che poi non sono così univoci…)? Riducendo di un anno la scuola superiore? Accorpando -con risparmio di un anno- elementari e medie? Anticipando tutto il percorso scolastico a 5 anni? I presenti al focus hanno rifiutato di inserirsi in questa “guerra tra poveri”, anche se il loro tifo si indirizzava a difendere l’identità triennale della scuola dell’infanzia (dai 3 ai 5 anni pieni) come “base sicura” di tutto il successivo percorso di scolarizzazione. Ma è evidente che ogni segmento scolastico avrebbe le sue buone (o cattive) ragioni per evitare un’amputazione così drastica della sua durata. E forse -ha suggerito Giuliano Franceschini (Università di Firenze) è un modo vecchio quello di affrontare una domanda di innovazione epocale portando sulle spalle il pesante fardello di contenitori scolastici rigidi, impermeabili, ottocenteschi. Si dovrebbe radicalmente rimettere in discussione l’idea di “gradi e ordini” scolastici, in favore della maggiore personalizzazione dei percorsi, dell’iniziativa degli allievi, della capacità di affrontare le numerose “transizioni” che vanno ben oltre la tradizionale distinzione tra il periodo scolastico dedicato all’apprendimento e la vita dedicata al lavoro. Questo rimescolamento dei confini dovrebbe aiutare a riscoprire le ragioni vere dell’educazione, oggi confinata strumentalmente a preparare per un lavoro (che spesso non c’è).
Non un anno in meno, ma… Si può partire anche dai 18enni, ma per capire di quali bisogni esistenziali e formativi sono portatori i nostri giovani (Pino Patroncini). Che spazio c’è nella quinta classe superiore per i loro progetti di vita, per la loro iniziativa, per i loro talenti? Forse meritano qualcosa di diverso, ad esempio di poter scegliere il loro futuro (formazione, lavoro, università, stage, alternanza) con maggiore fiducia e sapendo che le istituzioni li aiuteranno. Invece di un prof in cattedra servirebbero tutor per accompagnamenti mirati in contesti formativi assai più liberi e articolati. Quindi non deve parlare di un anno in meno, privando di opportunità soprattutto i più deboli (quelli già a rischio di abbandono), ma di un anno diverso, su misura dei ragazzi (Beppe Bagni). Questa ipotesi, che chiameremo provvisoriamente 4+1, avrebbe il pregio di stimolare la scuola secondaria di II grado a rimettersi in discussione, a ripensare ai suoi ritmi accademici, alle routine delle sue lezioni, al peso dei suoi contenuti e al rito dei suoi esami (di Stato). Uscire a 18 anni, in questa ottica, vorrebbe dire “mettersi nei panni” dei ragazzi, promuoverne l’autonomia, la decisione, la scelta, ma con le migliori professionalità adulte a disposizione. Quindi è quanto mai opportuno uscire da un dibattito tutto centrato sull’idea di anticipare, accelerare, ridurre. Sia che ci riferiamo ai 18enni, sia a maggior ragione ai bambini di 5 anni.
La cultura dell’anticipo Oggi sembra prevalere un pensiero sbrigativo, che vuole semplificare i percorsi, tagliare i tempi della maturazione, abilitare precocemente. Dietro la scelta del mini-anticipo della scuola elementare, varato nel 2003 dal Ministro Moratti[1], si intravvede questo approccio performativo. Magari si rende omaggio alle potenzialità di sviluppo dei bambini, si cita un ambiente sociale sempre più ricco di relazioni, si ricorda la pervasività di linguaggi, tecnologie, alfabeti nella società contemporanea, non a caso definita società della conoscenza e dell’apprendimento. Dunque, si presume che tutto questo abbia risvolti positivi anche per i bambini, precocemente immessi (o da immettere) nella società dei grandi. I genitori sembrano affetti da una sindrome narcisistica nei confronti dei figli, pretendono per il loro il successo immediato (segnala Cinzia Mion, riprendendo Recalcati), e strumentalizzano in questo loro desiderio anche il possibile ruolo formativo della scuola. La vicenda della valutazione, con la reintroduzione del voto numerico nella scuola elementare e media, dopo un’assenza di oltre trent’anni, sembra segnalare questa spinta verso la priorità dei risultati (tra l’altro misurati in modo assai sbrigativo) a scapito dell’attenzione ai processi di crescita, alla maturazione di atteggiamenti riflessivi, alla cura per il pensiero critico e divergente. Se l’apprendimento si riducesse a mero addestramento di condotte cognitive, allora sarebbe possibile “addestrare” a leggere e a scrivere anche a 3 anni (cfr. metodo Doman), ma se la scoperta degli alfabeti e della lingua scritta deve avere una risonanza nel pensiero dei bambini, allora occorre costruire esperienze di incontro con la lettura ove prevalga il piacere della narrazione, la curiosità dell’anticipazione, la costruzione dei significati. Questo approccio è previsto anche nelle recenti Indicazioni per il curricolo (2012), ove l’incontro con i saperi dei grandi (i sistemi simbolico-culturali) si distende in esperienze naturali di gioco, di esplorazione, di immaginazione, di rielaborazione (Giancarlo Cerini). Ci sarà posto anche per percorsi più strutturati, di arricchimento del lessico, di corretta pronuncia delle parole, di uso funzionale della lingua, di incontro con ambienti plurilingui, ma salvaguardando le dimensioni dell’incoraggiamento costante, della motivazione, della partecipazione attiva.
Il mestiere di scolaro Di fronte alle richieste improprie dei genitori, di accelerare le tappe dello sviluppo, di “saltare” un anno nel percorso della scuola dell’infanzia, di concentrare l’attenzione su apprendimenti di prerequisiti strumentali, la scuola dell’infanzia deve saper presentare la qualità dei suoi ambienti di apprendimento, facendo capire il nesso imprescindibile tra relazione e apprendimento, tra crescita dell’autonomia e curiosità cognitiva, tra cura del corpo e cura della mente (Antonella Panchetti e Orietta Orru). Una malintesa accelerazione degli apprendimenti scolastici potrebbe poi produrre sorprese negative nei risultati a medio termine (come sembrano attestare i risultati delle indagini Invalsi riferite agli alunni anticipatari). Lo stesso profilo in uscita del bambino dalla scuola dell’infanzia si carica di valenze socio-affettive, piuttosto che ruvidamente cognitive: le parole che contano sono quelle di iniziativa, autonomia, curiosità, socialità, ascolto, attenzione, creatività, partecipazione, ecc. Quasi delle risorse socio-emotive indispensabili per sorreggere quel “mestiere di scolaro” (Giancarlo Cerini) che si apprende già nella scuola dell’infanzia, come costruzione di un atteggiamento positivo verso la dimensione sociale della conoscenza che si costruisce nelle situazioni di scambio, di relazione, di incontro guidato con i saperi. Nel profilo a 6 anni si parla di “competenze di base” che “strutturano la crescita”, in relazione ai traguardi si utilizza la frase “è ragionevole attendersi”, si richiamano i “compiti di sviluppo” (una dicitura assai più generativa del termine statico di risultati) pensati unitariamente per i bambini dai 3 ai 6 ai anni.
Una via d’uscita, il curricolo “verticale” La elaborazione di un curricolo verticale, visto nella sua forza generativa, nelle sue dinamiche evolutive, magari in una distensione dai 3 e i 14 anni (oggi resa possibile dalla generalizzazione degli istituti comprensivi) è la miglior risposta all’ansia dell’anticipo (Lia Martini). Il curricolo è evolutivo se si delineano a maglie larghe gli apprendimenti attesi nelle varie fasi di età, in cui ad ogni bambino sia consentito sperimentare le modalità di apprendimento più appropriate, dove la scuola si organizza con passaggi slow e graduali tra materna ed elementare (è stata citata la sperimentazione di Bagno a Ripoli). Gli ordini ed i gradi scolastici sono il retaggio di un vecchio modo di “amministrare” l’educazione. Il curricolo verticale dovrebbe invece descrivere la progressione degli apprendimenti legati alle diverse discipline, disegnando i diversi step delle competenze attese, lungo un asse cronologico, che va oltre l’appartenenza ad una classe scolastica (Katia Rossi). Per ogni gradino si potrà poi disegnare una gradazione di livelli (ad esempio, tre) rispetto ai quali ogni allievo potrà posizionare la sua personale progressione. Il livello non esprime un giudizio di valore definitivo, ma segna le fasi di una evoluzione in corso. Si tratta di trovare un equilibrio tra gli standard così definiti e il progresso personale di ogni allievo verso quegli standard. Questo dovrebbe diventare anche il criterio di riferimento per la valutazione: qual è il grado di avvicinamento di ogni allievo ai traguardi attesi? E per “marcare” questo processo i voti in decimi non sono certamente il codice migliore. Ci aspettiamo qualcosa di diverso, di più plastico, dai nuovi modelli di certificazione delle competenze ed anche un ripensamento sulla questione del voto.
Una scuola in apnea La scuola dell’infanzia offre dunque un contributo decisivo alla crescita cognitiva, affettiva e sociale dei bambini e nel garantire pari opportunità. Come già segnalato nei documenti di riferimento dell’OCSE, Starting Strong I, II e III, le politiche educative dovrebbero considerare con maggiore attenzione ed intensità il ruolo educativo della scuola per i bambini dai 3 ai 6 anni. Purtroppo le notizie che giungono dal paese reale, e di cui si è avuto una forte eco nel focus (Paola Conti), non sono incoraggianti: - riduzione delle fasce di compresenza (a volte per allungare a dismisura i tempi di accoglienza); - locali e strutture non sempre adeguati; - scarsa formazione iniziale ed in servizio per i docenti; - sezioni numerose e con bambini anticipatari (senza verifica dei requisiti indispensabili per accoglierli); - costi crescenti dei servizi educativi (che inducono ad abbandonare il nido per cercare rifugio in una scuola dai costi più ridotti); - sottovalutazione da parte dei dirigenti scolastici. Sulla posizione dei dirigenti nei confronti della “materna” si è aperto un vivace confronto tra i partecipanti, con il comune riconoscimento del ruolo decisivo della dirigenza (Doriano Bizzarri) nel dare valore alla presenza della scuola dai 3 ai 6 anni (ad esempio, nell’economia dell’istituto comprensivo), nel curare la formazione dei docenti non come optional accessorio, nel governare le complesse problematiche gestionali (iscrizioni, anticipi, rapporti con i genitori, gli enti locali, i livelli scolastici successivi). Anche da questo osservatorio si conferma l’esigenza di evitare la deriva burocratica nel reclutamento e nel profilo del dirigente, cui si chiede di esercitare una leadership educativa distribuita, che ha tutto da guadagnare nel dare spazio alla pedagogia implicita ed esplicita di cui è portatrice la scuola dell’infanzia.
Investire sulla formazione in servizio In molti interventi è tornato in modo accorato il tema della formazione in servizio dei docenti, come strada obbligata per far incontrare i discorsi pedagogici (come quelli che si ritrovano nelle Indicazioni/2012 sulla scia degli Orientamenti del 1991) con la realtà delle scuole. Oggi la formazione in servizio è marginale, sia nel profilo del docente (non basta certo il diritto-dovere), sia nelle scelte politiche (troppo esigue le risorse e sempre a rischio di spending review). Occorre poi valorizzare un modello di formazione che parta dalla base, cioè dalle esperienze migliori delle scuole, che possono diventare una risorsa preziosa del sapere professionale per i docenti (Anna Bonci e Elena Turini). Già l’Università ci sta provando con le esperienze di tirocinio, ma anche l’aggiornamento dovrebbe trasformarsi in un laboratorio permanente di ricerca didattica, di riflessione sulla pratica, di rielaborazione di procedure metodologiche. Qualcosa si sta facendo con le misure di accompagnamento alle Indicazioni[2], ma è necessario essere più ambiziosi. Se si prende sul serio l’impegnativo profilo del docente di scuola dell’infanzia delineato nelle Indicazioni (un docente, competente, motivato, capace di ascolto, mediazione comunicativa, impegnato in una delicata regia dei contesti educativi, orientato al lavoro collaborativo, colto, ecc.) la formazione dovrà diventare parte costitutiva della professionalità, essere riconosciuta e resa in un qualche modo obbligatoria (Barbara Scarpelli). E in un’ottica di sistema integrato (pubblico-privato) la formazione degli insegnanti diventa un modo intelligente per mettere a confronto culture di riferimento, buone pratiche, aree di eccellenza. Ivi comprese le forme di coordinamento pedagogico che sono da estendere in tutte le realtà.
Servono buone politiche per l’infanzia Ma è la politica scolastica nazionale che deve riscoprire il valore dei servizi e delle strutture educative. Al momento si è aperto un dibattito parlamentare a partire dalla presentazione della proposta di legge 1260 del 27-1-2014 (prima firmataria Sen. Francesca Puglisi) in cui si cerca di affermare la qualità educativa complessiva del settore educativo 0-6 anni, facendolo uscire da una situazione di marginalità (ancora troppo spesso asili nido e scuole dell’infanzia sono considerati servizi a domanda individuale), incrementando la presenza degli asili nido, oggi al di sotto del 15% di copertura, distinguendo le finalità educative dei due segmenti 0-3 e 3-6 pure nella comune visione pedagogica della “cura e dell’educazione”, raccomandando un più sicuro e massiccio intervento pubblico (dello Stato, in primis) a sostegno di un sistema integrato di servizi educativi di qualità. Ma di questo si tornerà certamente a parlare in un prossimo “focus”.
Da un’idea di Giancarlo Cerini e Cinzia Mion [1] La legge 53/2003 prevede la possibilità di anticipare di 4 mesi la frequenza alla scuola primaria per i bambini che compiono i 6 anni entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento. In precedenza questa possibilità era limitata al 31 dicembre. La percentuale degli “anticipatari” varia notevolmente da regione a regione: molto alta al Sud, più ridotta al Nord; si lega alle tradizioni sociali e culturali dei diversi territori e alla presenza o meno di una efficiente rete di strutture educative per l’infanzia. Anche il costo del servizio sembra oggi incidere su questa scelta. [2] Con la CM 22/2013 sono stati stanziati 1,6 milioni di euro per favorire la formazione di reti di scuole impegnate nella formazione sulle Indicazioni. Risultano attivate circa 400 reti. Ogni rete raggruppa 4-5 scuole, che designano piccoli gruppi di docenti (una decina) che vanno a costituire laboratori di formazione di 15-20 docenti. L’idea è che il docente “ricercatore” che si impegna in un percorso attivo di studio, confronto e micro-sperimentazione didattica, possa poi diventare una risorsa preziosa nella propria scuola, ad esempio per animare gruppi di ricerca, dipartimenti, attività di formazione. E’ comunque indispensabile assicurare la continuità del programma di formazione almeno per gli anni 2014 e 2015, ma qui cominciano le note dolenti della carenza di finanziamenti. |