I legami perduti di Dario Missaglia, ScuolaOggi 25.6.2014 La scuola si avvia lentamente verso la pausa estiva. Se non fossero in corso gli Esami di Stato , con il carico di emozioni, umanità viva, attese, di qualche migliaio di giovani , sarebbe ancor più palpabile la sensazione di noia, immobilismo e ritualità che caratterizza la scuola.
Rituali le polemiche e il dibattito su l’Invalsi, rituali le
esternazioni del Ministro di turno, rituale il dibattito intorno
agli Esami di Stato e il loro debole collegamento con il mondo del
lavoro e dell’Università. Questa condizione stride con la percezione
più complessiva del Paese che sembra correre come mai si era visto
prima: nel campo politico, economico, nel dibattito trai partiti e
nella dialettica per le riforme istituzionali. E se saranno circa 400 i cantieri del tutto nuovi, dovuti allo sblocco del Patto di stabilità, migliaia saranno gli edifici interessati a progetti di manutenzione e di messa in sicurezza. E’ insomma ai nastri di partenza l’intervento più massiccio che il Paese abbia mai visto sull’edilizia scolastica, dal dopoguerra ai giorni nostri.
Un piano che apre ad un ciclo di interventi che il Fondo Sviluppo e
Coesione dovrebbe implementare fino al 2020. Il fatto poi che questo
ambito di intervento sia affidato al Sottosegretario Reggi, un altro
sindaco prestato alla politica , è certamente motivo di
rassicurazione e fiducia. Che di tutto ciò si discuta così poco, sulla stampa e nelle stesse scuole, è abbastanza sconfortante. Come se le condizioni d’ambiente in cui si svolge la vita della scuola, quella materiale, atta ogni giorno di mura, locali, servizi, arredi, sia altra cosa dall’azione educativa che vi si realizza e dalla qualità delle relazioni tra le persone che vi si incontrano.
Pesa forse, in questa de-materializzazione del fare scuola, una
antica traccia di gentiliana memoria in base alla quale “il maestro
è il metodo” e tutto il resto è inessenziale. Può darsi ma credo che
oggi si manifesti anche altro. Non c’è solo il blocco della contrattazione, la stagnazione delle riforme, i concorsi mancati e quelli irraccontabili, la crisi delle burocrazia ministeriale e i danni del Titolo V. Questa crisi, dalla cui narrazione sociale convincente siamo ancora lontani, ha colpito al cuore le relazioni sociali. Ha eroso progressivamente vincoli di solidarietà e vicinanza, ha sospinto sempre più le persone nel territorio della solitudine, dell’individualismo. A scuola sono rimaste le cattedre le classi, gli orari. Ciascuno vive la propria dimensione operativa in questo ambito. Le vecchie sedi collegiali, sono deboli punti di passaggio burocratico in cui si ratificano decisioni e soprattutto in cui ci si difende da qualsiasi rischio di invadenza altrui. I Dirigenti scolatici sono tornati Presidi e, a quanto mi dicono molti colleghi, funziona! Altro che ricerca di modelli di leadership democratica, così faticosi, rischiosi, dispendiosi. Vince un modello autoritario/burocratico che paradossalmente viene acquisito. Poche chiacchiere, niente discussioni, disposizioni brevi e la scuola va. E il patto corporativo si stringe immediatamente perché alla mancanza di dibattito, ricerca, fa da contrappeso la difesa dell’esistente, la non invadenza nell’ambito personale, il potere di fare ciò che si crede senza condizionamenti salvo quelli, del tutto rituali, delle norme che regolano il funzionamento generale della struttura. Vince la rassicurazione reciproca del “rispetto “dei ruoli individuali. E in questo deterioramento delle sue condizioni umane e professionali, la scuola si avvita su se stessa, riproducendo con durezza i caratteri di una scuola classista “che cura i sani e respinge i malati” e isolandosi dal suo stesso contesto materiale: che senso ha, infatti, progettare spazi, immaginare luoghi ed angoli di un edificio, quando al centro c’è solo il singolo individuo? Questa dimensione profonda della crisi non è risolvibile solo con le politiche dall’alto, sempre auspicabili. Passa in primo luogo da uno sguardo concreto e disincantato della propria condizione lavorativa e degli esiti del proprio lavoro; esige di riprendere in mano il lavoro come valore e non solo come reddito , chiede di provare che cosa vuol dire lavorare insieme, scoprire la soddisfazione di progettare e raggiungere un esito condiviso, avere la curiosità di provare un percorso insieme, costruire passo dopo passo l’embrione di una comunità in cui scoprire che si sta meglio insieme piuttosto che ricacciati nei rischi del proprio individualismo.
Se vi sono scuole, e ci sono, che si misurano su questo terreno è
perché qualcosa si è mosso dal basso, dalla partecipazione di
ciascuno, dalla fiducia che insieme si può riuscire a cambiare. E’
la dove si sono spezzati i legami profondi che bisogna tornare per
ricostruire quei legami; ripartire dunque dal lavoro e dalle forme
concrete in cui si svolge, dalle modalità e condizioni di lavoro;
riscoprire la soddisfazione del riconoscersi in una impresa comune,
in un lavoro ben fatto, in un riscontro sociale del proprio
impegno, in una scuola accogliente di cui avvertire il senso di
appartenenza.
Dario Missaglia, Fondazione Di Vittorio |