Un esame a perdere,
cosa non è oggi la maturità

È stata lungamente disattesa la legge
che richiedeva una certificazione delle competenze

di Maurizio Tiriticco*ItaliaOggi 24.6.2014

Quando alla fine del secolo scorso furono riformati gli esami di maturità, l'intento era molto chiaro. In un Paese che stava cambiando e in un'Europa che non era più solo un mercato unico, ma un'Unione vera e propria – in quegli anni eravamo ancora 15 Paesi rispetto ai 28 di oggi – anche noi dovevamo cominciare assolutamente a cambiare, anche in termini di istruzione.

I nostri titoli di studio dovevano essere concorrenziali con quelli dei partner europei e in Europa già da allora – ricordiamolo – si cominciava a parlare di competenze e ad operare di conseguenza. Ma la legge 119 del lontano 1969 prevedeva che «l'esame di maturità ha come fine la valutazione globale della personalità del candidato» (art. 5) e che «a conclusione dell'esame di maturità viene formulato, per ciascun candidato, un motivato giudizio, sulla base delle risultanze tratte dall'esito dell'esame, dal curriculum degli studi e da ogni altro elemento posto a disposizione della commissione» (art. 8). Ma già da allora la ricerca educativa e quella docimologica sostenevano che la valutazione complessiva della personalità di un qualsiasi soggetto è impresa ardua, perché mancano indicatori di riferimento chiari e definiti.

Occorreva, pertanto, un vero e proprio giro di boa e dichiarare chiaramente, alla fine di un esame così impegnativo quale quello conclusivo di un percorso di studi superiori, che cosa un giovane conosce e che cosa, soprattutto, sa fare.

Fu così che, dopo un lungo dibattito, varammo un nuovo esame di Stato, che non fosse più centrato su una sempre discutibile e vaga maturità, ma sulle concrete conoscenze acquisite dal candidato, soprattutto in chiave pluridisciplinare, e sulla loro altrettanto concreta utilizzazione, in termini di competenze. A sostegno del «saper fare», introducemmo anche i crediti, quel corredo di attività significative che, meglio di un generico curriculum, possono dare testimonianza delle vocazioni e delle effettive capacità operative del candidato. Indicammo strumenti di misurazione e di valutazione nuovi, sostituendo i punteggi ai voti. Introducemmo una nuova prima prova scritta, «intesa ad accertare la padronanza della lingua italiana_ nonché le capacità espressive, logico-linguistiche e critiche del candidato». E padronanza significa anche saper leggere: di qui la prova relativa all'analisi del testo. Innovazioni importanti furono anche quelle del colloquio pluridisciplinare e della terza prova scritta, altrettanto pluridisciplinare. Ma il clou del nuovo esame, in effetti, doveva essere l'atto conclusivo, un diploma che non fosse una generica indicazione di maturità, ma di concreti «saper fare» accertati, verificati e certificati.

L'articolo 6 della legge così recita: «Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell'esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni, al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell'ambito dell'Unione europea». Si trattò di una innovazione, ma anche di una scommessa. Sarebbe riuscito il nostro sistema scolastico superiore, da sempre finalizzato a un esame di generica maturità, a passare a un esame centrato su competenze? Era sufficiente rifare il tetto della casa, perché tutto l'edificio cambiasse? La scommessa era forte. Una scuola che non aveva alcuna confidenza con le competenze sarebbe stato in grado di saperle promuovere, valutare e certificare?

Alle indicazioni della legge occorreva un sostegno attivo e chiarificante da parte del regolamento. E l'anno successivo, con il dpr 323/98, intervenimmo su questa materia con il seguente testo: «L'analisi e la verifica della preparazione di ciascun candidato tendono ad accertare le conoscenze generali e specifiche, le competenze in quanto possesso di abilità, anche di carattere applicativo, e le capacità elaborative, logiche e critiche acquisite» (art. 1, comma 3). Potevano essere sufficienti due righe normative ad avviare quella rivoluzione che la legge aveva avviato? Indubbiamente no! Così per molti anni le commissioni hanno arrancato. E l'amministrazione nulla ha fatto per sostenere un esame del tutto nuovo.

Così oggi non abbiamo più un esame di maturità, ma non abbiamo ancora un esame centrato sulle competenze, come la legge auspicava.

In seguito l'Unione Europea ci ha dato una definizione certa di competenza, con il rapporto Deseco del 2003 e con le due Raccomandazioni del 18 dicembre 2006 e del 23 aprile 2008. Ora, siamo alla vigilia di un nuovo esame di Stato, che andrà in vigore con la tornata del 2015. Va ricordato che, oltre alle indicazioni UE, disponiamo anche delle indicazioni dell'EQF (European Qualifications Framework) e sappiamo che i titoli di studio della nostra istruzione secondaria di secondo grado corrispondono al livello quarto degli otto individuati dal suddetto EQF, come indicato dall'Accordo quadro del 20 dicembre 2012.

In tale contesto/scenario, riuscirà la nostra amministrazione a dare finalmente indicazioni chiare ai nostri studenti e ai nostri insegnanti, magari in occasione della riforma annunciata per il prossimo anno, su come dovranno essere condotti i nuovi esami di Stato? Un interrogativo a cui occorre dare una sollecita risposta, e prima che il nuovo anno scolastico abbia inizio.

 

* già ispettore Miur