Giannini: tre mesi di vacanza Il Corriere della Sera scuola 15.6.2014
Il progetto del dibattito sulla scuola è nato su «la Lettura» grazie
a un’idea di Paolo Giordano. Dieci scrittori hanno affrontato nelle
ultime settimane dieci aspetti. I lettori hanno contribuito con le
loro idee sul sito Corriere.it. Il forum con il ministro
dell’Istruzione, Stefania Giannini, cui hanno partecipato alcuni
degli autori che hanno scritto su «la Lettura», chiude questa fase
della discussione. Paolo Giordano spiega come è nato il progetto.
STEFANIA GIANNINI — Lei mi
spinge a considerazioni personali che non pensavo di fare, ma anche
a riflettere sul sistema educativo di un Paese civile, cioè non solo
quello che pesca nella fascia dei giusti, degli adeguati, ma — come
avrebbe detto don Milani — rende realmente eguali, in termini
sociali e adattivi. Io sono nata nel 1960, vengo da una famiglia in
cui sono la prima laureata, mio padre era un piccolo commerciante,
mia madre faceva l’operaia prima di andare a lavorare con lui in
negozio. La mia sensazione è che quella scuola, il modello educativo
di quegli anni, per studenti che avessero in casa migliaia di libri
o poche decine come me, garantiva un’opportunità di fare. Consentiva
di scegliere il libro, di scegliere la lettura, di scegliere un
percorso. La scuola oggi dà la stessa possibilità, di potenziale
uguaglianza nel senso inteso da don Milani? Mah, per quello che ho
visto dal colle del Miur, ho la sensazione che gli ultimi 25 anni
siano stati consumati ad affrontare le dinamiche sulla funzionalità
del sistema e non gli aspetti strutturali. ALESSANDRO D’AVENIA — Le racconto una storia: un ragazzo vede il suo insegnante di lettere e dice «Voglio diventare come lui». Decide che vuole insegnare e basta. Ma ritrova nelle Ssis (Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario) quei docenti che all’università aveva evitato perché sapeva che non erano all’altezza, mai entrati in una classe. Semmai, una cosa interessante che trova nelle Ssis è il tirocinio, unica grande palestra per un insegnante. Però poi deve aspettare anni, avendone 37, perché sa che l’età media degli insegnanti è 50-52: è in una graduatoria, quella delle materie classiche, lentissima. Dopo 14 anni di insegnamento, un 37enne con un curriculum non vale niente per la scuola italiana. Un suo collega che vuole accelerare i tempi fa il concorsone del 2012. Arriva primo, vince la cattedra e va a insegnare in una scuola. Quello che voglio dire è che occorre cambiare le regole d’ingaggio, aprire le graduatorie, far sì che il curriculum valga, lavorare sull’aspetto relazionale dell’insegnamento, non solo sulle conoscenze culturali.
STEFANIA GIANNINI — Lei parla di
un blocco strutturale nei meccanismi di reclutamento, della
difficoltà di avere un ricambio generazionale, di regole di ingaggio
ancora inadeguate. Ma racconta anche di esperienze che sono state un
successo a metà, per esempio la scuola di formazione per insegnanti,
la famosa Ssis poi diventata Pas (Percorsi abilitanti speciali) e
poi Tfa (Tirocinio formativo attivo), cioè differenti modelli
esterni al percorso di studi per far sì che si cominciasse a
misurare il grado di empatia nella relazione con gli studenti —
tutti modelli fallimentari, perché il grado di empatia, cioè la
capacità didattica, si deve acquisire e sperimentare durante gli
studi. FRANCESCO DELL’ORO — Siamo i campioni dell’abbandono scolastico, quasi 800 mila giovani di 18-24 anni non sono andati oltre la terza media. E per i laureati siamo al 27° posto. Ministro, che scuola vogliamo fare? Continueremo a fare i temi lasciando sul banco solo foglio e dizionario (una cosa contro la storia e contro la logica)? A dare 4,2 come voto? È possibile pensare a una scuola che riesca a valorizzare le eccellenze, ma anche coloro che sono più in difficoltà? Giovanni, di terza media, scrive in un tema: «Io odio la scuola. È bruttissimo stare sei ore fra quattro mura, la scuola è una palla, ho capito che è importante ma almeno rendetela divertente». Ho parlato con un ragazzo che viene dall’Ucraina: lo hanno definito dislessico, vorrei vedere se andassimo noi in Ucraina. Non sono solo studenti, sono adolescenti che vanno a scuola! STEFANIA GIANNINI — Manca nel nostro Paese, dalla scuola all’università, il senso di appartenenza alla realtà in cui si lavora, all’istituto o al dipartimento. Il senso di contribuire a un progetto. Nell’autonomia che le scuole possiedono, già per legge, è possibile tecnicamente quasi tutto quel che ha detto lei. Questo non avviene perché quella solitudine pedagogica, degli insegnanti ma anche del preside, molto spesso si traduce non nella ricerca del miglior progetto possibile per la tua scuola, ma nell’adempimento (con gradi diversi di impegno) di una linea che è quella del programma, delle indicazioni ministeriali, della preparazione agli esami... L’unico vero modo per stimolare un cambiamento radicale è al solito non la via legislativa, ma la via culturale. Quello che si può fare è mettere in discussione sul serio il ruolo dell’insegnante, quindi la sua necessaria formazione continua. E poi la valutazione di tutto questo meccanismo, per creare autonomia e responsabilità nella gestione e nell’organizzazione del progetto educativo, per stimolare questo senso di appartenenza che in alcuni Paesi è fortissimo. Se tu vai in America, chi ha studiato a Harvard anche se gli chiedi «prendi caffè o tè?» trova il modo di dire che viene da Harvard, e allora ti risponde che «noi di Harvard bevevamo tè»... CORRIERE DELLA SERA — A Milano i bocconiani conservano questo senso di appartenenza... STEFANIA GIANNINI — Sì, perché la community si identifica con un obiettivo condiviso, e chi ne fa parte, che insegni o impari, è motivato a dare il meglio. Perché non si potrebbe stimolare questo senso nelle università, addirittura nelle scuole? Ciò tira in ballo un’altra parola non molto amata: competizione. Non la competizione che divide tra scuola di serie A, quella dei Parioli, e scuola di serie B, quella dell’ultima periferia. È la competizione che dice: il nostro progetto cerca di esaltare al meglio le potenzialità che abbiamo. FRANCESCO DELL’ORO — Trovo molti ragazzi in ritardo nei processi di responsabilizzazione e nella capacità di organizzarsi, ma anche troppe anime deluse da un sistema di valutazione che invece di motivarli li ferisce. PAOLO GIORDANO — Ecco, questo delle valutazioni è stato un altro dei punti di partenza del progetto condiviso con «la Lettura». Quando ho visto un bambino in seconda elementare prendere 4, o 5, mi è sembrato assurdo. Un bambino alto così e questo voto così secco e netto. SILVIA AVALLONE — La scuola mi è sempre stata a cuore. Ma appartengo a una generazione che è stata tagliata fuori dall’accesso all’insegnamento, io stessa sono un’insegnante mancata. Ho scritto il primo romanzo per questo. Io e i miei coetanei sognavamo di fare gli insegnanti, ma abbiamo scelto di non intraprendere quello che per noi era un calvario di incertezza. Ci siamo reinventati con un’enorme sofferenza. Uno degli amici aspiranti insegnanti è però entrato in un progetto di recupero di ragazzi che hanno abbandonato la scuola, nel Biellese. Una serie di enti locali uniti in un’associazione di scopo per recuperare ragazzi che non hanno mai raggiunto la licenza media. Mi si è aperto un mondo. Questi ragazzi provengono da retroterra drammatici, con problemi di apprendimento, di attenzione, storie familiari terribili. Una preside, un dirigente si sono uniti e sono riusciti a incoraggiare questi ragazzi. Ma lamentano una certa solitudine, mentre servirebbe individuare anse che portino al letto del fiume, agli istituti superiori per evitare il ghetto. STEFANIA GIANNINI — Quella che mi presenta è una sorta di Barbiana dei nostri tempi, l’intento è di strappare questi ragazzi alla strada. Credo che il ghetto si possa evitare se queste esperienze diventano utili ad alimentare il sistema, a dare spunti nella sua fisiologia e non solo a curare una patologia. L’eccezionalità della sperimentazione avrà prodotto modelli educativi diversi; e potrebbe essere molto utile mettere in contatto queste esperienze con quelle della scuola ordinaria. Uno Stato che ritiene che l’istruzione come la salute sia un bene pubblico fondamentale deve avere una visione centrale, un indirizzo politico, e farlo gestire in modi differenti, adattati a ciascun contesto. CORRIERE DELLA SERA — Forse qui è utile tornare a quei concetti di tempo e spazio di cui parlava all’inizio. STEFANIA GIANNINI — Dunque: il tempo. C’è bisogno di tempo per fare grammatica, per studiare retorica, per leggere Virgilio in metrica o studiare scienze, ma c’è il drammatico bisogno di un tempo dedicato ad altro, magari a una dimensione interattiva e artigianale, per esempio sulla scrittura e sulla lettura. Il tempo non è solo un fatto culturale ma anche legislativo: servono visione e soldi. Pensate al buco nell’ozono che si crea tra il 9 giugno e 5 settembre, più o meno. Questo non significa che la scuola deve diventare una babysitter, lungi da me. Però, sono stata in Israele una settimana fa e mi hanno raccontato di questo straordinario ministro della scuola che sta cercando di fare una grande riforma: il principio è dare alla scuola anche il tempo estivo. In modo che gli studenti possano recuperare quella dimensione lì, il campus, creare quel senso di comunità che allora ti motiva anche come insegnante. Ti senti portatore di un progetto educativo. Il tempo è categoria fondamentale, come lo spazio. Noi stiamo facendo un grande lavoro di intervento sull’edilizia scolastica. Ma bisognerebbe poter andare oltre, quando costruisci o recuperi. Un’idea di Renzo Piano su cui stiamo ragionando e che trovo, nella sua semplicità, geniale è che la scuola abbia uno spazio dedicato all’apertura verso l’esterno, con l’ambiente, con la città. Un piano terra in cui tu non hai nulla, né aule né studio dei professori, ma ambienti in cui c’è tempo e spazio per un contatto con la comunità. ERALDO AFFINATI — C’è un altro tema che mi sta a cuore. Crede che sia necessario creare i presupposti affinché si realizzi una valutazione specifica per gli studenti stranieri di prima o seconda generazione anche alla fine del corso di studi, in modo simile a quanto già avviene per i Bes (alunni con bisogni educativi speciali)? STEFANIA GIANNINI — È un tema a cui sono molto vicina per la mia storia: ho lavorato, insegnato e diretto l’Università per Stranieri di Perugia. Il problema dell’integrazione linguistica si collega a quello della valutazione delle competenza e dell’integrazione culturale. Penso si debbano fare le due cose. Non solo valutazione, ma un processo di insegnamento dell’italiano come lingua seconda che sia finalmente strutturato. Oggi è affidato a insegnanti di buona volontà. CORRIERE DELLA SERA — Ha suscitato grande interesse l’intervento su «la Lettura» di Paola Mastrocola sul tempo lungo nella scuola. Lo stesso tempo lungo di cui ha appena parlato lei. Ma poi bisogna fare i conti con scuole che chiudono il sabato d’inverno per risparmiare sul riscaldamento, che non hanno la carta igienica... STEFANIA GIANNINI — In una legislatura possiamo cominciare a parlare di alcune cose, ad ascoltare. Sarebbe improvvido annunciare una rivisitazione radicale del tempo, al di là dei soldi. Dobbiamo cominciare, poi il lavoro lo finirà un altro ministro. CORRIERE DELLA SERA — In effetti, il problema della continuità, della mancata continuità, affligge da tempo la scuola. Idee e competenze di ministri che l’hanno preceduta si sono perse. Luigi Berlinguer aveva idee forti, ma la sua riforma è naufragata, un peccato. STEFANIA GIANNINI — Questo è purtroppo vero, ma è un problema che ha infettato diversi settori della vita pubblica italiana. |