La scuola che vorrei:
il tempo per imparare a insegnare

di Simone Giusti, Corriere Scuola di vita 5.1.2014

Per il 2014 vorrei una scuola in cui gli insegnanti collaborano e cooperano al fine di conseguire lo stesso risultato: lo sviluppo delle potenzialità di ciascun alunno. Lo vorrei a tal punto che, da insegnante, sarei disposto a mettere in discussione la mia cosiddetta “libertà di insegnamento” per aprire le porte della mia aula e farvi entrare tutti quei colleghi che potrebbero contribuire a un mio miglioramento e, soprattutto, a un incremento della qualità dell’apprendimento degli alunni e delle alunne.

Per spiegarmi meglio provo a partire da un presupposto assai banale, che dovrebbe trovarci tutti d’accordo: la scuola esiste affinché gli alunni apprendano.

Sappiamo che l’apprendimento non è un’esclusiva della scuola, poiché ciascuno impara in ogni momento della vita e in ogni luogo, dalla casa al posto di lavoro, dai corsi di formazione professionale alla scuola, dal master all’università della terza età.

La scuola è quella particolare istituzione che esiste esclusivamente per consentire alle persone di imparare e che per questo usa delle tecniche che sono definite, in modo sintetico e un po’ semplicistico, “insegnamento”: un insieme di pratiche che, da alcuni secoli (ben prima della nascita delle democrazie moderne), consentono alle persone più giovani e inesperte di apprendere, cioè di acquisire conoscenze e di allenare alcune capacità che sono considerate un “patrimonio” dagli adulti di una determinata comunità.

Esistono numerose tecniche e strumenti per insegnare, alcuni più antichi, come la lezione fatta con il supporto di una lavagna nera, altri più moderni, come il lavoro di gruppo o la lezione fatta con il supporto di una lavagna interattiva multimediale.

In ogni caso, per quanto sia chiaro agli studiosi che l’insegnamento non è il principale responsabile dell’apprendimento di una persona, la società investe molte risorse per pagare gli stipendi a esperti di insegnamento, i quali sono incaricati di mettere in atto le pratiche ritenute più opportune al fine che gli alunni apprendano.

Ingenti risorse, inoltre, sono investite in infrastrutture e tecnologie ritenute idonee a praticare l’insegnamento: aule, banchi, cattedre, lavagne, libri, lavagne interattive multimediali, computer, videoproiettori, tablet, eccetera.

È evidente, quindi, a me che faccio l’insegnante, che il mio compito sia di consentire agli alunni di apprendere ciò che la società ritiene indispensabile.

Sta a me e ai miei colleghi, sulla base delle esperienze fatte e delle indicazioni provenienti dagli studi pedagogici, individuare i metodi e gli strumenti migliori tra quelli disponibili. Ed è per questo che s’insiste tanto sulla formazione dei docenti e sulla valutazione dei risultati di apprendimento degli alunni, che è un modo indiretto per valutare anche l’efficacia dell’insegnamento.

Ma io non voglio proporre, per questo 2014, un piano di formazione per tutti gli insegnanti, perché ritengo che sia una cosa scontata, che già dovrebbe essere in atto e la cui assenza dovrebbe far vergognare, ogni giorno che passa, tutti gli insegnanti, i sindacalisti, i ministeriali e i legislatori.

Facciamo finta che gli insegnanti abbiano già l’obbligo di formarsi e che siano valutati per la qualità del loro insegnamento, ovvero sulla capacità di consentire agli alunni di apprendere.

Il fatto è che io ritengo che sarebbe ben più rivoluzionario riconoscere alla scuola stessa la capacità di insegnare a insegnare, e di auto migliorarsi continuamente.

Sarebbero sufficienti alcuni piccoli accorgimenti, non privi di oneri, utili a favorire il confronto e la collaborazione tra gli insegnanti, i quali potrebbero in questo modo concentrarsi sulla loro finalità (l’apprendimento degli alunni) e acquisire, con gradualità, l’abito mentale dell’artigiano che continuamente impara dal proprio lavoro e dal confronto con i più esperti.

Potremmo prendere a modello il lavoro degli insegnanti elementari nelle scuole del tempo pieno o dei moduli, una delle cose migliori del nostro sistema scolastico, ingiustamente e incautamente smantellata dai legislatori. Gli insegnanti, in quel caso, hanno a disposizione delle ore settimanali di “programmazione”, durante le quali si incontrano per fare il punto sulla didattica (come e cosa si insegna) e sugli apprendimenti (cosa e come stanno imparando gli alunni). Maestri e maestre delle diverse aree disciplinari dialogano e scrivono per mettere a punto gli strumenti, condividere i metodi e scambiarsi idee e opinioni sugli alunni.

Sono ore che hanno un costo, ovviamente, perché previste dal contratto di lavoro all’interno dell’orario settimanale.

Gli insegnanti della scuola secondaria, invece, hanno un orario settimanale basato esclusivamente sulla presenza in aula, a cui si aggiunge un monte ore annuale che sono dedicate a attività assai poco collaborative e cooperative: collegi dei docenti, consigli di classe, ecc. Si tratta di occasioni d’incontro che sono una via di mezzo tra attività politica e adempimenti amministrativi, durante le quali non è previsto che si impari gli uni dagli altri e che si rilevino in modo puntuale gli apprendimenti.

Le attività di programmazione della scuola primaria andrebbero valorizzate di nuovo e estese alla scuola secondaria, semplicemente.

E a noi insegnanti della scuola secondaria, a partire dal sottoscritto, dovremmo impegnarci a usare con maggior profitto il tempo già disponibile per lavorare in gruppo e per trasformare i cosiddetti “consigli di classe” in soggetti collettivi che operano consapevolmente e intenzionalmente per imparare a insegnare affinché gli alunni, proprio quegli alunni, i miei, unici e irripetibili e ogni anno diversi, apprendano ciò di cui crediamo abbiano bisogno.

Semplicemente.