L’analisi

Bisogna ripartire dal «setaccio» della scuola media

 Il Corriere della Sera, 14.1.2014

Cornuti e mazziati. In un Paese che ha superato la soglia angosciante del 40 per cento di giovani disoccupati, ora «scopriamo» che il problema non è (o non è soltanto) la crisi del mercato del lavoro sempre più asfittico. Il problema è anche che le abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali datori di lavoro. In nessun Paese il disallineamento è così forte: da noi quasi un datore di lavoro su due lamenta di non trovare le competenze giuste di cui avrebbe bisogno. Un dato, in realtà, non così sorprendente. Non solo non facciamo più figli, ma i pochi giovani che abbiamo li perdiamo per strada. È l’esercito dei Neet (not in education, employment or training): oltre due milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano. Alcuni hanno il diploma, altri neanche quello.

L’Italia ha il record di abbandoni scolastici in Europa: il 17,6% di alunni (con punte del 25% nel Mezzogiorno) lascia i banchi di scuola troppo presto. Se si vuole capire come mai da noi i giovani faticano tanto a trovare lavoro bisogna risalire la corrente degli studi e ripartire dalla scuola media. Spiega Stefano Molina, dirigente ricercatore della Fondazione Agnelli: «Da noi la scuola media funziona come un setaccio che divide i ragazzi in tre gruppi: i più bravi al liceo, quelli così e così negli istituti tecnici e i più scarsi nelle scuole professionali. Così si uccide la possibilità di fare degli istituti professionali, di cui pure il Made in Italy avrebbe tanto bisogno, una scuola seria». Ma neanche i laureati se la passano bene. Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, da noi studiare conviene meno che altrove: è per questo che, complice la crisi (e l’innalzamento delle tasse universitarie) molte famiglie non spronano più i figli a iscriversi all’università e solo il 58% dei diplomati si immatricola (dieci anni fa erano il 73%).

La «colpa» è in parte delle università che (come mostrato dalla ricerca sui Nuovi Laureati della Fondazione Agnelli) licenziano dei giovani robusti nelle competenze disciplinari ma scarsi in quelle trasversali (capacità di lavorare in gruppo, di consegnare un lavoro nei tempi prestabiliti ecc.) magari anche perché durante il corso di studi non hanno mai fatto stage o comunque stage davvero utili. In parte però anche di un mercato del lavoro che in Italia sembra essere meno favorevole che altrove ai laureati stessi. «Da noi - spiega Andrea Cammelli di Almalaurea - il 37% dei manager ha solo un diploma di scuola media, mentre in Germania i manager laureati sono la stragrande maggioranza. E, come dimostrato da uno studio recente di Bankitalia, un manager laureato assume tre volte più laureati di un manager che non lo è».