Non solo “spending review”…
di Giancarlo Cerini, Educazione & Scuola
1.1.2014
Spending review: un gioco per “bocconiani”?
Quando si sente
pronunciare il termine di “spending review”, proveniente dal lessico
del new public management un sottile brivido si insinua tra migliaia
di pubblici dipendenti, che vedono il loro posto di lavoro messo in
pericolo da austere e ruvide politiche di tagli alla spesa pubblica.
In sé una spending review (cioè una revisione attenta di costi,
risultati, qualità dei servizi, sprechi) appare una scelta corretta
e vincente nel rapporto tra cittadini e pubbliche amministrazioni.
Il fatto è che oggi l’opinione pubblica sembra travolgere con un
unico giudizio tranchant istituzioni politiche, amministrazione
dello Stato (alias la “burocrazia”) e dunque anche i pubblici
dipendenti. E’ difficile essere sereni in questi casi. Il
pregiudizio verso i pubblici servizi (e dunque anche verso la
scuola) andrebbe contrastato con evidenze di “buona
amministrazione”, di corretto rapporto tra i costi e i benefici.
Avendo l’onestà di riconoscere che la qualità della nostra scuola
rispecchia situazioni storicamente determinate (territori, contesti
sociali, virtù civiche, dinamismi produttivi e culturali) e che non
sempre le politiche sono state in grado di rimuovere gli ostacoli
che si frappongono all’equità. Va anche riconosciuto che in termini
di ricchezza nazionale (e di spesa pubblica) destinata
all’educazione e alla cultura il nostro Paese non brilla nelle
graduatorie internazionali (ma occorre anche prendere atto che il
costo per alunno è qui spesso più elevato che altrove). Tutti
fenomeni studiati in un brillante rapporto pre-spending review
dovuto nel 2006 al ministro Padoa Schioppa: il “Quaderno bianco
sull’istruzione” che però riuscì ad ispirare solo in parte le scelte
del secondo governo Prodi (2006-2008).[1]
Cara scuola: quanto mi costi, quanto mi rendi?
Poi arrivò la gelata
del taglio lineare alla spesa per la scuola, contenuta nella legge
133/2008 (art. 64), sotto il cui segno sono stati introdotti
numerose modifiche all’ordinamento scolastico italiano, attraverso
un mix di scelte organizzative (il maestro unico, la riduzione degli
orari, la fine della compresenza, i curricoli essenzializzati,
ecc.), con una riduzione della spesa dell’ordine del 7/8% del budget
annuale. E’ vero, all’orizzonte già si intravvedevano i bagliori
della crisi finanziaria internazionale, ma il colpo fu “pesante” ed
ancora oggi la scuola si interroga sul senso di quelle decisioni. E
non è disponibile ad affrontare nuovi sacrifici, perché esige un
pronto ristoro di quel torto subito. Chi “vive” la scuola percepisce
un aggravamento delle proprie condizioni di lavoro (basti pensare al
blocco delle retribuzioni, all’appesantimento dell’organizzazione
didattica), ma chi la osserva dall’esterno si permette ben altri
giudizi. Di recente autorevoli rappresentanti dell’OCSE commentando
il lieve miglioramento dei risultati dei ragazzi italiani
intervenuto tra le rilevazioni PISA del 2009 e quelle del 2012,
hanno algidamente affermato che si tratta di un incremento netto di
produttività del sistema scolastico (miglior risultati con minori
spese…)[2].
E già questo paradosso (come il fatto che la regione con i migliori
risultati – il Trentino – sia anche quella con i costi maggiori…),
ci ricorda che al bene scuola non è possibile applicare gli
inflessibili parametri delle leggi di mercato. Quanto costa alla
società tenere aperta (o “chiudere”) una scuola in un quartiere
difficile di una periferia degradata? L’approccio alla qualità
dell’istruzione dovrà tener conto anche del suo valore “sociale” (il
valore aggiunto), senza sottovalutare la rilevanza dei risultati
degli allievi. Di qui il dibattito acceso che coinvolge le
prospettive del sistema di valutazione nazionale[3].
La sfiducia verso ciò che è pubblico
Recenti indagini[4]
hanno sottolineato come sia aumentata la sfiducia dell’opinione
pubblica nei confronti dei servizi pubblici e quindi anche verso la
scuola. E’ pur vero che nelle top ten delle istituzioni alla ricerca
di “fiducia pubblica” la scuola si colloca ad un onorevole terzo
posto (il 51,8% dichiara di avere molta o moltissima fiducia),
subito dopo la Chiesa (54,2%) e prima del Presidente della
Repubblica (49,0%).
Forse si capisce che la
scuola è ancora un luogo di incontro tra persone, storie, ceti
sociali, identità ed una delle poche occasione per sviluppare
curiosità, talenti, competenze nei giovani, anche se forse le
finalità dell’istruzione, nella società della conoscenza e dei
social network si sono venute appannando. Potremmo convenire che
l’istruzione è un fattore indispensabile di “umanizzazione”[5].
E’ quindi assai improbabile che ad essa si possano applicare criteri
puramente mercantili. Per questo solleva non poche perplessità la
proposta sviluppata da alcuni economisti (Andrea Ichino e altri)[6]
di aprire una stagione di liberalizzazioni nel sistema scolastico,
affidando la gestione delle scuole a gruppi, associazioni, enti, che
riceverebbero voucher in proporzione alla capacità di attrarre
“utenti” verso le “loro” istituzioni educative. Un modello talmente
“liberista”, da mettere a repentaglio la tenuta del sistema
educativo.
Questo non toglie che
l’analisi dei costi, la rilevazione degli sprechi, il commisurare
costi-benefici non debba ispirare una seria politica pubblica verso
l’istruzione. Una onesta spending review può essere l’occasione per
radiografare lo stato di salute della nostra scuola, interrogarsi
sulle sue virtù ma anche sui suoi vizi, studiare i fattori di
miglioramento, a patto di uscire dalla logica di generiche riduzioni
di spesa. Anche le voci su cui procedere al check-up dovrebbero
andare oltre i classici oggetti del desiderio per ogni Ministro del
Tesoro (la numerosità delle classi, la capillarità del
dimensionamento, gli orari di funzionamento, il sostegno, ecc.).
Guardandosi intorno con un po’ di attenzione, non mancano le
possibilità di fare economie di spesa migliorando (possibilmente) la
qualità dei servizi educativi erogati.
1. La duplicazione degli apparati
Un primo esempio si
riferisce alla duplicazione degli apparati amministrativi. A livello
regionale e locale è presente una doppia filiera amministrativa
(quella statale e quella degli enti locali, che convergono sullo
stesso obiettivo: assicurare la buona gestione della scuola). Ci
riferiamo da un lato agli Uffici Scolastici Regionali e agli
ex-Provveditorati agli Studi (come articolazioni del Ministero
dell’Istruzione) e dall’altro agli Assessorati regionali e
provinciali all’istruzione (per non dire di quelli comunali, con i
relativi uffici). E’ tempo di ripensare ad una riunificazione delle
strutture, sulla scia di quanto già propugnava la Sentenza della
Corte Costituzionale 13/2003, semplificando la giungla delle
strutture di governance. Certamente occorre uno snodo strategico
regionale (di tipo politico amministrativo, come nei Laender
tedeschi o, da noi, in Trentino) che unifichi le competenze in
materia di istruzione: un vero Dipartimento regionale per
l’istruzione. Mentre a livello provinciale, una volta assodato il
superamento delle Province (che dovrà portare con sé anche una
diversa articolazione dell’amministrazione statale) non è difficile
pensare a strutture di tipo amministrativo-gestionale per “aree
vaste”, da costituire senza aggravio di spese e di apparati,
funzionanti a partire dal know-how disponibile attorno ai comuni
capi-comprensorio.
2. La durata del percorso di studi
Un secondo esempio è
dato dalla durata del percorso scolastico. Non si tratta
semplicemente di ridurre o contrarre il percorso (sforbiciando qua e
là, con anticipi, accorpamenti, riduzioni, solo per “fare cassa”),
ma di ripensare l’intero itinerario formativo mettendosi dalla parte
dei ragazzi. Cosa serve ai nostri 18enni, i cui livelli di
preparazione sembrano non competitivi con quelli di altri paesi e
che si candidano a diventare NEET (cioè ragazzi che né studiano, né
lavorano, né si formano)? Noi siamo favorevoli ad una diversa
modulazione della scuola secondaria superiore, in particolare ad un
percorso di 4 anni + 1 quinto anno di snodo verso l’università, il
lavoro, la formazione superiore, gli stage, l’Europa, il servizio
civile ecc., che consenta di aiutare i nostri 18enni a trovare una
“spinta” per il loro futuro, senza dover attendere – inermi
maggiorenni - nelle rassicuranti classi quinte delle scuole
superiori. Le molte risorse che si potrebbero “liberare” consentono
di “inventare” un nuovo modo di essere della scuola (spazi
flessibili, flipped classroom, nuove professionalità, campus
integrati, ecc.) di cui è alla ricerca una scuola che sappia farsi
accettare dalle nuove generazioni[7].
E gli insegnanti più “creativi” potrebbero sperimentare inediti
impieghi didattici (al confine tra scuola, università, mondo del
lavoro).
3. Il profilo “reale” della docenza
Un terzo esempio
riguarda il profilo della docenza. E’ sotto gli occhi di tutti
l’arretratezza del profilo giuridico dell’insegnamento, fortemente
sbilanciato sull’orario frontale di lezione (diverso tra i vari
livelli scolastici); mentre ciò che dovrebbe caratterizzare una
rinnovata funzione docente (il tutoraggio, l’accompagnamento negli
stage, l’attenzione personalizzata, la gestione dell’e-learning
nelle nuove modalità social di education, la preparazione-formazione
personale, gli impegni di progettazione e verifica) è lasciato in un
limbo che rasenta il volontariato ed espone alla disistima sociale.
Sono maturi i tempi per un rapporto diverso “tempo della
prestazione-qualità dei trattamenti giuridici e economici[8],
ripensando a tutto tondo i tempi giornalieri, settimanali, annuali
della prestazione. Ovviamente con i connessi vantaggi retributvii.
Il rinnovo del Contratto 2015 è già dietro l’angolo.
4. L’integrazione
scolastica
Il quarto esempio
richiede un po’ di cautela, trattandosi del tema delicatissimo
dell’inclusione (come oggi si tende a dire). Se riconosciamo
irreversibile la scelta italiana per l’integrazione scolastica dei
disabili, dovremmo però favorire migliori forme di impiego e di
coordinamento delle figure di sostegno. Anzi, dovremmo operare
affinché i 110.000 insegnanti di sostegno (si spera finalmente
stabili) diano il meglio di sé[9].
Non sarebbe scandaloso che il 4-5% di questa “forza” fosse
rappresentata da figure di coordinamento, di raccordo, di studio di
modelli efficaci di integrazione, da attivare “dentro” e “a fianco”
della scuola, ad esempio con distacchi di personale insegnante ad
hoc nei centri risorse territoriali per l’handicap. I migliori
docenti di sostegno, invece di fuggire nei ruoli “normali” dopo
cinque anni di permanenza in quelli “speciali”, potrebbero diventare
i tutor dei colleghi che si apprestano a svolgere funzioni di
sostegno. Ma non solo. Sono maturi i tempi per avviare un discorso
al plurale sui “sostegni” e non sulla sola figura di sostegno, verso
cui si “scarica” impropriamente tutta la tensione dell’integrazione.
Servono altre figure (ad esempio “educatori professionali” con
competenze per l’assistenza, la cura, l’accompagnamento, ecc.) e
altri specialisti (riabilitatori, consulenti psicopedagogici,
esperti in tecnologie e didattiche differenziate). Insomma, invece
di 110.000 figure qualche volta “generiche” servirebbe una
differenziazione di profili professionali, non tanto per spendere
meno (guai!), ma per spendere meglio.
5 - A caccia di nuove risorse
La ricerca di maggiori
risorse è un problema per tutte le strutture pubbliche ed i settori
dell’intervento pubblico. Ma è una questione difficile da
affrontare, che impatta con le nostre diffidenze, pigrizie,
resistenze verso un sistema trasparente ed equo della fiscalità
generale. Una scuola autorevole, credibile, impegnata, può
certamente aspirare ad una maggiore generosità della spesa pubblica
(investimento, tra l’altro!) nei confronti dell’educazione. I
confronti internazioni, infatti, ci penalizzano ed è tempo di una
svolta virtuosa, per maggiori risorse e per una migliore qualità
della scuola. Ma non esistono ricette miracolose. Intanto, si
dovrebbe recuperare un gap tipico del nostro sistema: la scarsità di
risorse private (non solo di quelle pubbliche) che vengono destinate
alla scuola, dalle famiglie, dalle imprese, dai donatori. Si può
cominciare con il fund-raising attraverso belle imprese di scuole
che sappiano attrarre risorse verso l’impresa educativa. Ed agendo
verso i genitori: crediamo che di fronte a proposte credibili di
arricchimento dell’offerta formativa (uno strumento musicale per
ogni ragazzo, un tablet, uno stage in impresa, un viaggio
all’esterno, una certificazione linguistica) non mancherebbe il loro
contributo, in sinergia con quelli degli enti locali e dello Stato[10].
Però, dall’alto, servirebbe un bel gesto….
Non possiamo passare
ancora troppi anni a lamentarci della insensibilità dei nostri
governanti verso le sorti della nostra scuola pubblica. Occorre fare
qualche mossa del cavallo dal “basso”, nella convinzione che anche
questo potrebbe essere un modo nuovo di fare politica (scolastica e
non solo). Abbiamo indicato poc’anzi alcune ipotesi. Ma è evidente
che se dall’alto venisse un segnale forte in controtendenza, forse
anche la scuola capirebbe che è tempo di rimettersi in marcia.
A cosa ci riferiamo?
Pensiamo soprattutto alla risorsa insegnante, alla necessità di
recuperare nuove energie e professionalità nella scuola, a reclutare
una nuova “generazione” di docenti con specifiche competenze. Non è
possibile, e non è più possibile nella situazione di oggi, proporre
un generico reclutamento di insegnanti, magari per assorbire le
graduatorie permanenti, invece richieste mirate di professionalità
non solo sono auspicabili, ma sono indispensabili. Ci sono nuove
funzioni e nuove esigenze che non trovano risposta negli assetti
attuali.
Ad esempio,
servirebbero almeno 1.000 docenti per far fronte alle emergenze
della alfabetizzazione linguistica e culturale nelle aree più
esposte; almeno 1.000 operatori tecnologici per infrastrutturare sul
piano digitale le scuole del primo ciclo (in particolare le medie);
almeno 1.000 docenti di musica per arricchire e specializzare
l’insegnamento di questa disciplina nella scuola primaria;
analogamente 1.000 specialisti di lingua inglese per promuovere il
curricolo verticale e fare un verifica seria dell’insegnamento di L2
nei primi livelli; poi 1.000 docenti per coltivare l’alternanza
verso il mondo del lavoro e gli stage; ancora 1.000 docenti per
favorire i processi di internazionalizzazione della nostra scuola
(stage, scambi, certificazioni); ed infine 1.000 docenti “bravi” e
capaci di sostenere i colleghi di fronte alle difficoltà di
apprendimento, disturbi specifici, bisogni educativi speciali.
Fanno giusto 7.000
docenti, con alti livelli di specializzazione, che dovrebbero essere
assunti o “promossi” nei prossimi anni a fronte dei 70.000 posti che
si sono “chiusi” negli ultimi 10 anni. Il 10% di recupero di risorse
professionali rispetto a quanto è venuto meno dal 2008 al 2013[11].
Volendo si potrebbe fare certamente di più e lo si dovrà fare. Ma
già questo è un lodo ragionevole, un investimento minimo, un primo
passo che darebbe il senso della svolta (come è avvenuto, del resto,
anche in altri Stati europei), verso una maggiore
professionalizzazione della nostra scuola, foriero di una
prospettiva di rilancio non solo simbolico del “bene” istruzione nel
nostro Paese.