Istituti tecnico-professionali: di Marina Boscaino, Il Fatto Quotidiano 5.1.2014 È nota la vicenda delle sentenze del Tar (e persino del Consiglio di Stato) che hanno dichiarato illegittime le circolari sugli organici per l’a.s. 2011/12; sentenze che non hanno portato alcuna modifica dei tagli conseguenti alle circolari stesse (Gelmini), anche a causa dell’irresponsabile comportamento delle regioni “amiche”, quelle di centro sinistra; che – dopo una serie di penosi minuetti (in particolare da parte della Puglia, ma anche del Lazio) – non si sono costituite ad adiuvandum, pur essendo parte lesa di quegli atti ministeriali: l’opportunità politica non è stata ravvisata. E in questo tempo melmoso, si sa, essa prevale decisamente rispetto al ripristino di condizioni di diritto e legalità. Del resto nemmeno la recente sentenza della Corte Costituzionale non è stata presa in alcuna considerazione. C’è stato un tempo ormai abbastanza lontano (eravamo durante il governo Prodi) quando si pensò di dover procedere con un forte intervento di valorizzazione dell’istruzione tecnico-professionale. Sulla scia di quando – in un tempo ancora più lontano, si trattava degli anni ’60 – quel segmento della scuola superiore era risultato fondamentale nel dare gambe allo sviluppo economico. Ai tempi di Prodi, purtroppo però, il trand determinato da una visione scellerata della scuola era già partito, sebbene non avesse ancora raggiunto i suoi vertici più sciagurati: finto innalzamento dell’obbligo scolastico, che infatti si chiamò e si chiama di istruzione; primi rigurgiti della tendenza alla privatizzazione. Poi arrivò Gelmini, che parlò indecentemente di “riforma”: in un taglio del 10% del monte ore globale del percorso di istruzione, quella tecnico professionale fu la più penalizzata; e la più scempiata – di conseguenza – dai tagli dei docenti disciplinari e dei tecnico-pratici, gli ITP. Si decretava in quel modo – definitivamente, a quanto pare, considerati gli esiti di quell’operazione – che i percorsi di istruzione superiore erano almeno a 2 marce, quello liceale e quello tecnico professionale. E che la scuola aveva definitivamente perso la sua funzione di “ascensore sociale”, dal momento che nella seconda andavano fisiologicamente a confluire i figli di un dio minore, rei di essere nati in famiglie meno acculturate, meno solide economicamente, caratterizzate da condizioni sociali più precarie. Nel corso degli ultimi anni l’operazione di disseccamento della risorsa dell’istruzione tecnico professionale si è tradotta in una diminuzione massiccia delle iscrizioni, che accolgono oggi meno studenti che in passato, accomunati spesso da provenienze sociali problematiche. Quest’anno, come ci indica l’archivio statistico del Miur, gli studenti dei licei erano il 46,8%, quelli dei tecnici il 32,1%, quelli dei professionali il 21,2%. La somma degli studenti coinvolti nell’istruzione tecnico-professionale è comunque superiore a quelli dei licei. Su ricorso dello Snals, la cosiddetta “riforma Gelmini” dei tecnici e dei professionali è stata dichiarata ancora una volta illegittima. Due sono i punti determinanti in questo senso: il coinvolgimento delle classi intermedie nel taglio delle ore curricolari. In sostanza, i genitori che avevano iscritto i propri figli ad un corso di studi tecnico e professionale nell’anno scolastico 2009-10 (prima della “riforma” Gelmini), si sono visti cambiare i quadri orari, il numero di ore per materia, i corsi di studi in corso d’opera, rispettivamente nel 2010-11 e 2011-12. Come comprare il biglietto per vedere un film, che però cambia dopo l’intervallo. Protestereste? In secondo luogo, sono state tagliate del 20% dell’orario di insegnamento materie con non meno di 99 ore annue, stabilendo peraltro un criterio del tutto discrezionale. In questo modo, la riforma interviene “sulle discipline caratterizzanti i corsi, in maniera per di più indiscriminata, senza individuare le discipline sulle quali incidere”. Ciò per cui si è determinata la scelta per uno specifico corso di studio (le materie caratterizzanti) viene cambiato per i già iscritti, modificato in maniera illogica dal punto di vista del diritto all’apprendimento, perché motivata esclusivamente da ragioni “di cassa” per gli iscritti al primo anno. Si tratta di una sentenza che non ammette repliche: le due disposizioni regolamentari più che recare norme per la “ridefinizione dei curricoli vigenti nei diversi ordini di scuola anche attraverso la razionalizzazione dei piani di studio e dei relativi quadri orari” portano “sic et simpliciter il taglio degli orari”. Tuttavia, nella giungla delle infrazioni che si sono succedute sulla testa della scuola pubblica e degli interventi giuridici volti al ripristino del diritto, ristabilire la norma sembra particolarmente difficoltoso. Si può realisticamente pensare ad una marcia indietro, con ripristino di orari e monte ore e – di conseguenza – di posti di lavoro? Si può davvero provare ad intervenire su una macchina che, attraverso azioni simili a queste, ha succhiato alla scuola pubblica più di 8 miliardi di euro e ridotto diritti al lavoro (-140 mila posti) e all’apprendimento? Si può ritenere che la sentenza del Tar non rimanga una pura affermazione di diritto e legalità e si trasformi in interventi concreti che diritto e legalità ripristinino effettivamente? “Lo Snals-Confsal auspica che il ministro rispetti la decisione del Tar. In caso contrario, il sindacato continuerà a portare avanti le proprie iniziative a tutela degli insegnanti, degli studenti e delle loro famiglie”, così Marco Paolo Nigi, segretario generale del sindacato. Pena: l’abbassamento ulteriore della nostra soglia di rassegnazione allo sfacelo della scuola sapientemente costruito negli anni e per nulla ostacolato oggi. Cosa fanno – davanti a queste palesi violazioni del diritto da parte dei ministri berlusconiani – la lettiana Carrozza e il renziano neo responsabile scuola del Pd, Faraone? Finora né fatti né parole. |