Non è Elena a doversi adattare.
I BES tra realtà e finzione
Attraverso la storia di ordinaria esclusione di
una bambina con Bisogni Educativi Speciali nella scuola primaria,
l’autrice fa una riflessione sul tema dell’inclusione nella scuola
italiana, sulle criticità e sulle incongruenze della recente
normativa sui BES.
di
Paola Conti*,
Education 2.0 14.1.2014
Due anni fa nella sezione scolastica dove lavoro è stata inserita una
bambina di sei anni che era stata trattenuta nella scuola
dell’infanzia in virtù di una diagnosi piuttosto pesante che
indicava forti carenze sul piano cognitivo e su quello relazionale.
Infatti Elena (la chiameremo così) urlava, era aggressiva nei
confronti dei compagni, tentava di scappare e presentava un uso del
linguaggio molto limitato.
Elena si è trovata bene nella nostra sezione; dopo pochi giorni, nei
quali ha mostrato tutto il campionario dei comportamenti descritti
nella diagnosi funzionale, ha iniziato gradualmente a limitare
parecchio gli atti aggressivi, a non urlare più e a non nascondersi
o scappare. Certo non è stato semplice relazionarsi con lei perché
era ed è una bambina che pretende un’attenzione quasi esclusiva,
difficile da ottenere in una sezione eterogenea composta di altri 25
bambini.
Noi insegnanti ci siamo mosse per tentativi ed errori, sperimentando
situazioni relazionali diverse, inserendo Elena all’interno di
differenti contesti e varie attività, nonostante la limitatezza
degli spazi (una stanza) e dei materiali. Ci siamo accorte così che
la bambina riusciva a relazionarsi in modo molto positivo anche con
quei bambini che sembravano essere i bersagli prediletti dei suoi
attacchi, che era capace di produzioni verbali e grafiche molto
diverse da quelle usuali, purché fosse inserita in piccoli gruppi,
all’interno di situazioni tranquille e silenziose e utilizzando
strumenti appropriati. In particolare Elena ha mostrato molta
attenzione nei giochi al computer a comando vocale.
Così, al primo GLIC successivo, abbiamo riportato queste nostre
osservazioni e le scoperte fatte. Ma la neuropsichiatra ha
confermato, su tutti i fronti, la pesante diagnosi.
Personalmente mi sono permessa d‘intervenire dicendo che non ero
d’accordo: per me Elena era capace di fare molte delle cose che
erano elencate come carenze e chiedevo di essere messa nelle
condizioni di poter lavorare con la bambina, attraverso le modalità
che avevamo visto funzionare.
La dottoressa, tra l’annoiato e l’infastidito, mi ha risposto che
Elena si doveva abituare a vivere in un mondo dove c’erano tante
persone, dove c’era confusione. Che non potevamo creare un mondo per
lei, che anzi questo sarebbe stato dannoso perché avrebbe inibito la
sua capacità di adattamento.
Ecco, adesso per me i BES sono questa cosa qui: un’ennesima sigla per
non cambiare niente. La scuola vive, tra le altre cose, anche
l’emergenza di non saper gestire le differenze che esistono tra gli
esseri umani con cui dovrebbe lavorare.
La risposta all’emergenza è la certificazione che assolve da qualunque
omissione di soccorso e da qualunque tipo di abbandono pedagogico.
Perché di questo si tratta: per includere bisogna avere la voglia,
la capacità e i mezzi (elencati in quest’ordine) per intervenire. E
siccome non possiamo eliminare le differenze, l’unica cosa sulla
quale possiamo intervenire è la scuola stessa, le sue strutture, la
sua organizzazione e le sue regole.
Perché la scuola non dovrebbe essere il posto dove Elena impara a
rassegnarsi a vivere una condizione di minorità, per adattarsi al
mondo che troverà fuori.
La scuola per me dovrebbe essere il luogo che offre a Elena tutte le
tutele e le garanzie e le opportunità per vivere una vita quanto più
possibile piena e soddisfacente, nonostante le differenze. Il
Ministero questo non lo vuole fare e, purtroppo, temo che non lo
vogliano fare neanche molte scuole e neanche troppi insegnanti. E
allora è ipocrisia parlare di bisogni e suona falso parlare
d’inclusione. In questi anni ci siamo vantati di una scuola
inclusiva in quanto aperta a tutti. Ma l’apertura della scuola,
seppur rappresenti una condizione necessaria, non garantisce
l’inclusione reale.
La storia di Elena ci aiuta a capire questa banale verità.
E ci ricorda anche che l’inclusione non è una necessità che nasce da
un’ordinanza ministeriale che tratta dei BES. Che la scuola debba
essere inclusiva è scritto nella Costituzione. Proprio per questo
suona falso il richiamo a un nuovo dovere.
Se davvero avessimo voluto fare qualcosa di serio, si sarebbe dovuto
procedere verso un monitoraggio dell’inclusività nelle scuole; ci
saremmo domandati: “A che punto siamo?”. Il Ministero avrebbe dovuto
verificare le pratiche inclusive – quali e quante – adottate dalle
scuole e valutare il grado di efficacia in termini di successo
formativo. Ma questo non lo facciamo neanche per i bambini “sani”,
figuriamoci per quelli con bisogni speciali! Al Ministero dovrebbero
verificare la professionalità degli operatori che si occupano di
questi bisogni. Ogni giorno ci troviamo di fronte a diagnosi che
sembrano fatte con lo stampo, risultato di osservazioni realizzate
in serie, che vengono consegnate a insegnanti stanchi che non sanno
e non vogliono sapere niente di difficoltà, di strumenti
compensativi, che pensano che già i DSA siano sostegni mascherati e
che bisognerebbe mandare messaggi chiari alle famiglie, ad esempio
bocciando quei bambini. Inoltre, avrebbero dovuto riflettere sul
fatto che ogni bambino ha un suo modo di apprendere e di
relazionarsi.
La ricerca didattica sul curricolo verticale mette al centro questa
peculiarità che è bene rispettare e valorizzare con una corretta
dinamica tra continuità di metodo e di approccio e discontinuità di
contenuti e di linguaggi.
Uno dei pochi strumenti che ha la scuola per affrontare questo tipo
di difficoltà è di accompagnare i bambini, nei passaggi da un anno
all’altro, da un segmento all’altro, attraverso una continuità reale
fatta di comunicazione e condivisione di approcci e di stili
educativi.
Infine, avrebbero dovuto pensare all’organizzazione, alla struttura.
Non si può installare un software se l’hardware non lo supporta. La
scuola deve adottare spazi e tempi caratterizzati da flessibilità,
ma per far questo bisogna sapere di cosa c’è bisogno, di quale
intervento proporre e, di conseguenza modificare la struttura in
funzione di quell’intervento.
E deve avere a disposizione personale competente e motivato; deve
poter contare su figure esterne che possano intervenire nei modi e
nei tempi che si reputano necessari.
Di tutto questo non c’è parola nella normativa sui BES. Allora io non
capisco di cosa stiamo parlando. Di quale inclusione, di quali
bisogni?
Leggi “Non
è Elena a doversi adattare”, il testo completo
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Paola Conti
Insegnante di Scuola dell'Infanzia. Si occupa
di ricerca e formazione sui temi della costruzione dei curricoli
verticali, in particolare di scienze. Su questi argomenti ha
pubblicato articoli su riviste e siti online. E' la coordinatrice
del gruppo di ricerca e sperimentazione della Scuola dell'Infanzia
del CIDI di Firenze.