SCUOLA Consigli (non richiesti) al ministro Giannini per affrontare i viet-cong di Giovanni Cominelli, il Sussidiario 26.2.2014 L'arrivo di un nuovo governo e del nuovo ministro dell'Istruzione Stefania Giannini, che ha già rilasciato numerose dichiarazioni, induce facilmente in tentazione appassionati, opinionisti e esperti di politiche dell'istruzione e, naturalmente, il personale della scuola: perché non dare qualche consiglio non richiesto? Certo, l'esperienza insegna che tale spremitura di meningi è fondamentalmente vana, ma anche la speranza è dura a morire. Il neo-ministro ha subito gettato il cuore oltre l'ostacolo, benché in modo leggermente irrituale, visto che il governo, al momento delle sue dichiarazioni, non aveva ancora ricevuto l'approvazione di ambedue le Camere. Dunque, la questione degli insegnanti. Stefania Giannini ha messo in discussione il dogma degli scatti di anzianità quale criterio di retribuzione degli insegnanti, ha criticato il metodo dei concorsoni (creano più problemi che soluzioni), ha ipotizzato l'attribuzione alle scuole del reclutamento degli insegnanti, ha abbinato riconoscimento del merito e valutazione, ha preso posizione per il liceo di quattro anni (anche se ieri, stando ad alcune sue ultime dichiarazioni, è prevalsa una maggiore cautela). Così come al lampo succede il tuono, altrettanto velocemente i sindacati hanno opposto un muro di comunicati, nei quali fanno rilevare che gli insegnanti italiani sono i peggio pagati d'Europa, che occorrono nuove risorse (ma anche il ministro è d'accordo su questo punto) e che, dunque, gli scatti non si toccano. La Giannini è stata perciò accusata di "gelminismo" (come se il passato ministro dell'Istruzione, di cui al nome, fosse meritevole di un -ismo). Il neo-ministro ha anche aggiunto che vuole restituire valore reale al valore legale del titolo di studio e che intende ripristinare il bonus della maturità . Da ultimo, si è dichiarata scettica sulla consultazione di massa che la Carrozza aveva annunciato agli inizi di gennaio. Intanto Renzi nel suo discorso al Senato ha posto la questione della valorizzazione sociale degli insegnanti come prioritaria per il suo governo, fino a preannunciare visite periodiche del capo del Governo nelle scuole. Mai nessun Governo aveva espresso una tale interesse per la condizione della scuola. Vale perciò la pena di cadere in tentazione per richiamare l'attenzione del ministro Giannini e di Renzi sulle difficoltà che sono destinati a incontrare nel "percorso di guerra" appena incominciato. Intanto, bisognerebbe che partissero dalla presa d'atto che abbiamo a che fare con "un sistema" di istruzione, nel quale tutti i pezzi sostengono ogni altro. Quale sapere si decide di trasmettere alle nuove generazioni, come lo organizzo in curriculum, con quale personale docente e dirigente, con quale tipo di assetto istituzionale-amministrativo? Si tratta di quattro segmenti dello stesso cerchio. Tale complessità ha sempre finito per funzionare da alibi per non affrontare seriamente nessuno dei quattro punti, salvo poi dover constatare che è impossibile operare cambiamenti di un segmento, senza operare contemporaneamente sugli altri tre. Si può e si deve incominciare, in primo luogo, dalla questione sociale del milione di insegnanti, di cui oggi si serve la scuola, ma con la consapevolezza che tutto si tiene. Che cosa significa la valorizzazione sociale degli insegnanti? Vuol dire che vanno preparati, assunti, valutati, premiati o, eventualmente, licenziati come professionisti. Le conseguenze di questo assunto sono molteplici: chiamano in causa il ruolo, oggi preponderante, delle università – che possono insegnare tutto, ma non insegnare a insegnare –, quello delle scuole – che devono diventare la bottega di apprendimento del mestiere; richiedono un altro meccanismo di selezione, più agile e personalizzato, a livello di singola scuola autonoma; esigono un stato giuridico, che preveda almeno tre step di carriera, la differenziazione delle retribuzioni e la valutazione, in vista del passaggio da uno step a quello successivo. Tutto ciò implica l'abbandono del modello impiegatizio-amministrativo, sul quale i sindacati hanno costruito la propria base di massa nel pubblico impiego. Fuor dai denti: implica uno scontro frontale con i sindacati della scuola. Che per un verso lamentano i bassi stipendi italiani e rivendicano quelli europei, ma per l'altro fin dagli anni 70 hanno co-prodotto e co-gestito, insieme all'amministrazione ministeriale, un'italianissima proletarizzazione impiegatizia omogenea del personale. Europei gli stipendi, ma italianissimo lo stato giuridico: scatti di anzianità, niente valutazione, niente professione. D'altronde la professionalizzazione non è compatibile con un assetto istituzionale-amministrativo ipercentralizzato, nel quale le autonomie scolastiche sono ridotte a decentramento funzionale dello Stato. Solo una scuola veramente autonoma è in grado di formare e assumere professionisti, senza dover ricorrere a concorsoni nazionali, sia pure spezzati per il numero delle regioni. Il centralismo amministrativo, la cogestione sindacale, l'assenza di carriera, gli scatti di anzianità, il rifiuto della valutazione delle scuole, il fallimento dell'autonomia scolastica sono un unico blocco logico. Mettendo altra carne suo fuoco: è assai difficile rivedere la tavola delle competenze-chiave dei ragazzi e ristrutturare il curriculum (sia adottando il 7+5 sia il 5+3+4), finché permane l'attuale rigidità delle tabelle di concorso, così che il passaggio dalla Lingua francese – tanto per fare un esempio noto – alla Lingua inglese è reso impossibile. La famiglia chiede l'Inglese, ma la scuola offre solo il Francese, perché ha a disposizione insegnanti che conoscono solo il Francese. Si sa che i governi durano poco, di questi tempi. Fatta la legge elettorale, ogni giorno è buono per votare. Il che rende precaria l'azione di attuazione del programma. Non siamo perciò autorizzati ad attenderci la riforma organica del sistema, ma è legittimo sperare che ogni piccolo passo venga fatto nella consapevolezza del "tutto che si tiene". Diversamente, come già accaduto innumerevoli altre volte, la tattica viet-cong dei sindacati riuscirà a paralizzare l'iniziativa riformistica del ministro e del Governo.
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