L’ultimo dei Mohicani.
Il mistero di “come” si spendono i soldi nella scuola

Nella scuola italiana il problema non è solo la mancanza di risorse economiche, ma come si utilizzano. Il confronto sui fondi per la programmazione didattica in ITIS per la chimica e le altre scuole superiori di secondo grado è particolarmente istruttivo.

di Arturo Marcello Allega Education 2.0, 6.2.2014

In un suo recente convegno, Treelle armonizza le sue tesi intorno a quelle di Ichino – e tanti altri dell’UE, sostenendo che il problema italiano è quello di spendere male i soldi che ci sono e non di averne bisogno di altri. Chiedere più soldi non ha granché senso se non si capisce come si spendono quelli che già si hanno. E questo è indubbio.

Nel recente intervento “Il maggior investimento in Italia è sull’ignoranza! La verità dei numeri“, abbiamo perorato la causa dei pochi finanziamenti alla scuola, nel senso che le attuali politiche preferiscono spendere poco e per obiettivi: soltanto per alcune scuole, in alcuni territori e affrontando di volta in volta la scelta più sostenibile (politicamente). Questo vuol dire spendere bene? Spendere in modo mirato? Differenziato?

In questa sede vogliamo considerare un caso molto istruttivo sul “come”, oggi, si spendono i soldi per l’istruzione.
Consideriamo i fondi pubblici per il “funzionamento didattico”, esattamente così com’è rappresentato nel Programma annuale (Bilancio dello Stato per la scuola). Essi sono destinati alla didattica e quindi all’acquisto dei materiali didattici necessari alla programmazione. Per l’esempio in questione, limitiamoci alle scuole superiori. La programmazione didattica prevede anche l’uso dei laboratori, soprattutto, negli istituti tecnici e professionali. Ebbene, il finanziamento per il funzionamento didattico delle scuole superiori è uguale per tutti gli indirizzi e tipologie di scuole. Questo vuol dire che, dal punto di vista delle attività laboratoriali, un liceo linguistico è identico a un liceo per le scienze applicate e a un classico, inoltre sembra che un liceo classico sia identico a un tecnico e a un professionale, un tecnico per l’informatica a un professionale odontotecnico, un ottico o un professionale per l’arte grafica e un tecnico industriale o un liceo scientifico a un tecnico per la chimica.

Ed è questo il punto.

Come si può pensare che un laboratorio di fisica abbia costi identici a un laboratorio di chimica e che un laboratorio di chimica di un Liceo (dimostrativo) abbia lo stesso costo di un laboratorio di chimica di un ITIS per la chimica?
Chiunque abbia avuto a che fare con un istituto chimico sa perfettamente che i laboratori per la chimica sono un pozzo senza fondo, un buco tra i più neri dell’universo-scuola; tra sensori del gas e manutenzioni, tra provette e vetrine, tre reagenti e solventi, tre cappe e scarichi, senza parlare delle strumentazioni, ecc...
Il caso della chimica è particolarmente istruttivo. Il fatto è che la politica ambientale dell’ultimo cinquantennio ha bandito la chimica da ogni sistema ecologico protetto. Ogni considerazione sull’inquinamento, sul danno biologico (pensiamo a quello farmacologico) ed ecologico (petrolio e nucleare), è collassata sulla chimica velenosa e colpevole dei disastri ambientali. Naturalmente, sappiamo bene che esiste anche la “chimica verde” e che la maggior parte dei prodotti che usiamo quotidianamente sono controllati e rappresentano l’unica soluzione allo sviluppo tecnologico possibile e sostenibile.

Basti pensare alla scoperta di nuovi materiali, alle biotecnologie (ambientali e sanitarie) e alle nanotecnologie. Ciò nonostante, negli anni ‘90 e nel primo decennio del 2000 molte aziende chimiche hanno chiuso e le iscrizioni ai grandi istituti tecnici per la chimica sono diminuite (molto più di quel che già avveniva negli altri settori). Sviluppo zero e politica educativa ostativa.

Nella sola Roma, istituti tecnici per la chimica come il “Lagrange” e il “Bernini”, con impianti laboratoriali – quasi industriali – eccellenti e storici, sono andati pian piano morendo. Oggi nel 2014 resta solamente il “Giovanni XXIII” a tener duro. È l’ultimo dei Mohicani! Non è giusto che l’offerta formativa sul territorio romano si limiti a questo tentativo di sopravvivenza. Non è giusto per la chimica e neanche per la formazione delle future generazioni, che vede comunque i periti chimici in pole position nelle assunzioni. Senza finanziamenti mirati all’acquisto e l’aggiornamento delle necessità laboratoriali è difficile collaborare con le aziende o fare una buona didattica mirata a sviluppare le competenze.


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