La formazione psicologica degli insegnanti

di Angelo D'Onofrio, ScuolaOggi 10.2.2014

La formazione continua degli insegnanti è un compito fondamentale per la Scuola. Formazione è prima di tutto dare forma e, come scrive Resnik, è il “cercare spazio e condizioni adeguate perché un certo tipo di apprendimento possa svilupparsi dinamicamente come movimento stimolante”.

Occorre insomma creare uno spazio nel quale possa essere stimolata la maieutica, cioè il “venire alla luce” di ciascuno.

Non mancano,è vero, corsi di formazione e aggiornamento che riguardano le singole discipline, nei quali gli insegnanti cercano indicazioni, consigli, suggerimenti da applicare nei loro rapporti pedagogici, vale a dire il “cosa fare” in ogni situazione.

Pochi però sono i corsi che si preoccupano di dar vita alla formazione psicologica dei docenti.

Il sottoscritto se ne occupa da anni e ha raccolto la propria esperienza in un libro intitolato “Il traghetto”, nel quale si parla di un viaggio un po’ particolare perché avviene all’interno di una stanza, che fa parte di una scuola, dove alcuni insegnanti si confrontano, si specchiano nella propria adolescenza e magari scoprono di avere ancora conti in sospeso con quella fase della propria vita.

Durante il viaggio, che si svolge sotto la guida di esperti capitani (due psicoanalisti), cresce la disponibilità a riflettere, il coraggio d’interrogarsi, il desiderio di imparare un nuovo alfabeto per leggere il mondo. Sto parlando di un Gruppo Balint.

Il Gruppo Balint, così chiamato dal nome del suo ideatore, lo psicoanalista ungherese Michael Balint, è un piccolo gruppo di formazione (10 – 15 persone) continuo, eterocentrato, il cui conduttore deve essere dotato di un’esperienza psicoanalitica personale, in quanto solo la conoscenza delle componenti inconsce della vita del gruppo consente allo stesso di “vivere” col gruppo eventuali momenti di conflittualità e di tempeste emotive.

La metodica, insomma, studia il rapporto nei suoi aspetti transferali e contro-transferali e consente un approfondimento specifico della psicologia del rapporto in una situazione psicodinamica in atto.

L’obiettivo principale del lavoro e dello studio di questi gruppi di formazione continua e di approfondimento è l’acquisizione non di un’astratta teoria psicologica del rapporto quanto piuttosto, attraverso l’analisi della pratica del rapporto, di un’esperienza della comprensione che può derivare solo dalla riflessione nella discussione in gruppo dei propri casi, proprio quelli che da soli per le implicazioni emotivo- affettive, di cui sono intessuti, non si è in grado di comprendere.

Il gruppo discute un “caso” presentato da uno dei partecipanti (relatore) e che deriva dalla personale esperienza professionale.

Il lavoro del gruppo si struttura partendo dal racconto del caso e, dopo la presentazione, gli altri partecipanti che lo desiderano pongono domande, formulano ipotesi, esprimono pareri e considerazioni.

Nel corso dei 60-90’ circa di durata della discussione il conduttore, insieme al co-conduttore, modera gli interventi, cercando di sottolineare gli aspetti che gli appaiono significativi relativamente al “racconto del caso” e alle interazioni avvenute tra i partecipanti.

Cosa differenzia l’esperienza in un gruppo Balint dai corsi di tipo tradizionale?

La differenza sta nel modo di apprendere. Nei corsi tradizionale prevale l’apprendimento di qualcosa, vale a dire conoscenze, contenuti, informazioni, in un gruppo Balint c’è l’apprendimento da qualcosa, vale a dire c’è un’elaborazione dell’esperienza attraverso il filtro della propria storia e della propria mente. Così il gruppo permette di apprendere da sé qualcosa su se stesso, sulle proprie emozioni e sui propri sentimenti.

Nei corsi tradizionali prevale la comunicazione direttiva e prescrittiva, la teoria domina sulla prassi: ci si muove sui binari della razionalità assoluta e dell’oggettività dei dati. Per questi corsi ci si fornisce di bloc-notes e di atteggiamenti passivi (sedersi, aprire le orecchie, prendere appunti) capaci di far tornare chiunque a casa “più pieno” di quando il soggetto ha iniziato il corso. Il gruppo Balint è altro, in quanto ciascun membro, pur non parlando di se stesso, c’è dentro con tutto se stesso, la sua vita, le sue esperienze. E’ vero che anche dal gruppo Balint ognuno dei partecipanti tornerà a casa con qualcosa, che però non sarà costituito da ricette già pronte per l’uso, ma da qualcosa che ha a che fare con l’esperienza altrui e collettiva, in quanto, come già detto prima, si tratta di un apprendimento di tipo esperienziale.

La discussione, in senso psicodinamico, dei casi in gruppo (non c’e insegnante che non abbia casi tra i suoi alunni, anzi si può dire che ciascun docente avrebbe teoricamente tanti “casi difficili” quanti sono gli alunni della sua classe) consente diversi obiettivi formativi per i partecipanti.

Gli obiettivi si possono raggruppare tutti, in qualche misura, nella nozione di “giusta distanza emotiva” (G.D.E.), necessaria ed utile per operare nel proprio campo con efficacia.

Ciò che interessa nei nostri gruppi è la storia di una relazione, magari proprio quella di una relazione non felice, quella di un alunno difficile, quella che non si vorrebbe raccontare, perché costituisce un racconto brutto, indigesto, con lati oscuri e zone d’ombra, che fa soffrire chi lo racconta e chi l’ascolta

Poi, con l’aiuto di altri occhi, di altre orecchie, di altri punti di vista, di altri sentimenti espressi con altri linguaggi, con altre metafore, è possibile “vedere” e “sentire” in modo nuovo il proprio caso, che diventa più alla portata della propria comprensione.

L’esperienza balintiana consentirà ai partecipanti una migliore “capacità di ascolto”, che è già un primo e sostanziale passo per ottenere quella “piccola, ma significativa e persistente trasformazione della propria personalità professionale”, come scrive Balint,tale da rendere il soggetto più adeguato ed efficace nel proprio lavoro, con benefici per entrambi, insegnante ed allievo.

Nel gruppo ci si confronta con gli altri, ci si rende conto che non si è il solo ad avere problemi relazionali, si mette a disposizione la propria esperienza e si ascolta quella degli altri. Così si determinano un maggior coinvolgimento emotivo e una situazione di parità di posizioni comunicative.

Accade anche che qualche insegnante sostenga che non ha problemi con gli studenti, che con loro tutto va bene, vale a dire “Io sono un bravo docente”. Qualcun altro può prendere le distanze dagli allievi attraverso giudizi sprezzanti e continue valutazioni negative. Questi docenti non sono in grado di vedere la realtà e fanno ricorso a varie strategie difensive(proiezione, rimozione…) per timore che la loro professionalità possa subire uno scacco.

La partecipazione ad un’esperienza emotiva e coesiva (le persone si sentono insieme), come quella di cui stiamo scrivendo, è tale da indurre un cambiamento nella struttura della personalità, cosicchè un partecipante diventa “qualcosa” di nuovo , cioè qualcosa che non c’era prima del gruppo. Naturalmente il passaggio non è indolore, anzi è accompagnato dalla sofferenza, dal dubbio, dallo spaesamento, perché si tratta di lasciarsi alle spalle gli antichi modelli, si tratta d’imparare dalle proprie esperienze: una persona non impara solo a risolvere un “quid”, ma anche i meccanismi di pensiero che entrano in gioco per affrontare e risolvere il problema.

Imparare nel gruppo è imparare grazie al gruppo:in esso non c’è assenza di conflitti; c’è però la possibilità di metterli in campo, di esplicitarli, di provare ad affrontarli e magari risolverli.

In tal modo il gruppo scrive la propria storia che dall’iniziale babele linguistica approda faticosamente e dolorosamente a un dialogo corale, nel quale le emozioni possono circolare senza spaventare, perché i vari componenti sono in grado un po’ alla volta di accettare ambivalenze, limiti, confusioni, conflitti e pluralità di senso. Il gruppo, insomma, ha una funzione pedagogica e profilattica.

Chi è nel gruppo, dopo un lungo training, acquista la capacità di assumersi la responsabilità delle proprie emozioni, senza fuggire davanti ad esse e comincia a sostituire il “non sono capace” con il “cosa potrei fare”, che è già un piccolo cambiamento: è infatti un cominciare a pensare alle proprie risorse, al proprio utilizzo.

Si sviluppa progressivamente nel soggetto l’attitudine alla ricerca, in quanto impara che non è l’oggetto della formazione, cioè quest’ultima non è pensata in modo transitivo (qualcuno che forma un altro), ma è un coattore di un’esperienza comune, in quanto potrà stabilire relazioni con gli altri compagni di viaggio, venire a contatto con le proprie e le altrui emozioni.

Si stabilisce una sorta di reticolo nel quale uno si adopera per l’altro.

C’è un passaggio dal singolare al plurale, si passa da un “mio problema” ad un “nostro problema”, perché, ascoltando tutto e tutti, il problema si definisce e si chiarisce meglio ed è possibile prendere in considerazione nuove prospettive.

Il gruppo diventa un po’ alla volta un luogo dove non ci sono “cose da imparare” quanto persone che imparano e si interrogano continuamente.

Quando il gruppo finisce, nulla è più come prima.

Bibliografia:

Balint M., Medico, paziente e malattia, Feltrinelli, Milano, 1961

D’Onofrio A., Il traghetto, Edizioni Psiconline, Francavilla al Mare, 2009

Resnik S., Lo spazio mentale, Boringhieri, Torino, 1991



Angelo D’Onofrio

Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoanalista

Membro della Società Italiana di Medicina Psicosomatica Vicenza


P.S.: Chi fosse interessato ad avere informazioni più approfondite può scrivere al seguente indirizzo: d1212a@virgilio.it