“TEDIO” contro scholé: dal blog di Giorgio Israel, 19.12.2014 È usuale ripetere che Silvio Berlusconi non è riuscito a realizzare nessuno dei progetti che ha avanzato nel corso di un ventennio. Ma non è vero. Perché vi è un ambito in cui ha vinto, stravinto e anzi ha travolto qualsiasi opposizione: ed è quello dell’istruzione con lo slogan della “scuola delle tre i” (internet, inglese, impresa), vittoria che si estesa anche all’università. Non soltanto tutto il centrodestra si è allineato a questa formula, con l’emarginazione di residui ambienti di conservatorismo tradizionale; ma essa è dilagata in larga parte della sinistra che l’ha fatta propria e persino interiorizzata sul piano ideologico, mentre la derideva e protestava salendo sui tetti contro le politiche dell’istruzione dei governi berlusconiani. Così abbiamo assistito all’invasione patrocinata con complicità trasversale di strumenti come le Lim (Lavagne interattive multimediali), ormai persino obsolete e spesso inutilizzabili in scuole che non hanno neppure i mezzi per riparare i gabinetti; mentre si prepara, con un coro di consensi, l’invasione dei tablet, in scuole che quasi mai hanno la banda larga, senza il minimo interesse per i contenuti che debbono trasmettere, tanto questa è l’ultima cosa che conta, e chi solleva il tema viene gratificato da sorrisini di sufficienza. Così stiamo assistendo al dilagare delle lezioni in inglese, spesso tenute da docenti che non ne controllano più di qualche centinaio di parole, e non soltanto in materie tecniche. Si racconta di scene esilaranti di lezioni universitarie di estetica o storia dell’arte tenute a studenti dell’estremo oriente, che non conoscono l’inglese e sono venuti qui per studiare l’italiano e i beni artistici e culturali del nostro paese. Intanto si prepara la valanga dei corsi in lingua inglese nei licei per tenere i quali non esiste neppure una quota accettabile del personale qualificato necessario. Quanto all’ideologia dell’impresa come modello universale, anche qui il trionfo è andato oltre ogni aspettativa. Non si tratta davvero di rimpiangere certi atteggiamenti ostili al mondo imprenditoriale in voga nell’estrema sinistra, ma di qui a bere la favola che l’impresa sia un modello perfetto di promozione del merito ne corre: basta guardarsi attorno e pensare alla crisi che stiamo attraversando. Ma neppure questo è il punto ed è penoso dover ripetere un concetto di elementare evidenza, rischiando di far la figura degli smemorati. Il mondo non è unidimensionale. Il criterio che presiede alla promozione del merito nell’impresa è intrinsecamente e radicalmente diverso da quello che presiede alla valutazione e promozione dei meriti intellettuali e culturali. È evidente che nel primo caso il criterio debba essere quello della soddisfazione del consumatore (“customer satisfaction”): se acquisto uno smartphone e non funziona, una scatola di alimenti che risultano guasti, ho il pieno diritto di protestare, essere rimborsato e poi rivolgermi alla concorrenza. In questo ambito sono utili quei confronti del rapporto qualità/prezzo che possono orientare il consumatore verso la scelta migliore. Ma se il ragazzo torna a casa con un 4 in matematica non è detto affatto, anzi è assai improbabile, che l’interessato e la famiglia abbiano il diritto di protestare con l’istituzione o il professore. Il 4 può, e spesso è, frutto di nullafacenza, trasandatezza, cattivo modo di studiare, e questo non può essere imputato alla scuola o università che sia. Lo slogan del “successo formativo garantito” è una solenne sciocchezza che mira alla formazione di persone tutte uguali, e chi lo avanza nel contesto di una società liberale è fautore di un grottesco connubio tra le ideologie del turbocapitalismo e del vecchio comunismo sovietico. La scuola può e deve tendere a far andare avanti tutti, però nella consapevolezza che si tratta di un principio orientativo, non conseguibile in modo pieno nella realtà, e che promozione del merito significa appunto premiare i migliori a svantaggio dei peggiori, che esistono, piaccia o no. Per questo, chi si straccia le vesti quando si dice che impresa e istruzione non possono essere accostati (e propone di omologare la seconda alla prima) sbaglia e di grosso. Anzi, non fa che propugnare un punto di vista che è all’origine dell’impossibilità di un’autentica promozione del merito nel campo dei beni immateriali e della conoscenza. Difatti, il risultato è che l’insegnante deve diventare un passacarte e un “facilitatore” preposto all’esecuzione di ricette predisposte dalla tecnocrazia di turno; e il dirigente scolastico può essere bravo quanto si vuole, ma è plasmato dal ruolo istituzionale di rispondere alla “customer satisfaction” in una maniera che va bene per una ditta che produce seggiole ma non per un’istituzione che forma le persone e crea conoscenza e capacità. Costretto in quel ruolo imprenditoriale al dirigente scolastico non resta che premere sui docenti perché non diano voti bassi e non boccino troppo e predisporre un’offerta formativa accattivante e questo, più che prestare attenzione alla qualità dei corsi nelle materie fondamentali, significa proporre un contorno di attività collaterali che vanno dai corsi di danza a quelli di cucito o di yoga, in cui talora traspare l’affarismo. In certi casi le liste di queste proposte sono dignitose, in non pochi sono vergognose. Questa lunga premessa conduce a spiegare perché il timido tentativo del piano della “buona scuola” di introdurre una progressione stipendiale degli insegnanti legata alla valutazione del merito stia miseramente fallendo. Nessuno può seriamente contestare la validità di un simile approccio rispetto a quello della progressione per anzianità, ma l’approccio di tipo imprenditoriale ha vanificato tutto. Se deve essere il dirigente scolastico, coadiuvato da una commissione, a valutare il merito, costui non dovrebbe essere un manager (magari neppure laureato) ma un preside, nel senso pieno del termine, ovvero il migliore tra tutti gli insegnanti. Tuttavia non un passo è stato proposto in questa direzione. Né ha senso stabilire delle quote prefissate di destinati alla progressione. Ma, soprattutto, è devastante l’idea che il merito non consista nell’essere un buon professore di italiano, di storia o di matematica, bensì nell’essere abile a mettere in piedi progetti “alternativi” che senza dubbio possono far pubblicità alla scuola ma per qualsiasi motivo eccetto che per quelli istituzionali. Del resto, come stupirsi che prevalga un andazzo verso il principio del TEDIO – Tutto Eccetto la Didattica Ordinaria, il contrario del greco “scholé” che significa ozio, ovvero spazio per l’autentica riappropriazione della propria identità e libertà – visto che abbiamo un sottosegretario che proclama la superiorità della didattica autogestita nelle occupazioni a quella ordinaria? È da chiedersi se egli abbia letto certe proposte circolanti da parte dell’“utenza” in tema di didattica autogestita, perché, se le avesse lette, la cosa sarebbe ancor più grave. In conclusione, non è da stupirsi se un timido passo nella direzione della promozione del merito sia affondato di fronte all’opposizione di chi ha facilmente preso in mano la bandiera di critiche giuste, anche se non sempre con il migliore degli intenti: prova ne è che si sta tornando alla progressione stipendiale per anzianità. Così, l’unica lezione che occorre amaramente trarre da questa vicenda è che il dilagare di un approccio tecnocratico e anticulturale sta distruggendo persino la residua consapevolezza di cosa debba essere la verifica delle capacità di uno studente e di un insegnante nel sistema dell’istruzione. In una parola, ci riempiamo ogni giorno di più della parola “merito” allontanandoci sempre di più dal suo autentico significato.
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