Il Paese che siamo Giovanni Fioravanti, ferrara italia 30.12.2014 Allora diciamolo: siamo ancora un Paese con poca istruzione e con poca cultura. Per di più la tendenza è al peggioramento. La scarsa dose di questi ingredienti cucina sempre una cattiva democrazia e una cattiva libertà. I dati sono forniti dall’ Istat, nell’Annuario statistico italiano per il 2014. Ci si iscrive di meno alle università, si legge poco e il 70% dei nostri connazionali non ha mai assistito a un concerto di musica classica. Eppure la scolarizzazione nel corso degli anni è andata sempre crescendo, fino a raggiungere ormai il cento per cento dalla scuola dell’infanzia alla scuola media e il 99,3% dei giovani tra i quattordici e i diciotto anni. Ma, se solo tre cittadini su dieci sono in possesso di una qualifica o di un diploma d’istruzione secondaria superiore e solo uno su dieci possiede un titolo universitario, è indubbio che qualcosa non funziona per il verso giusto. Un vero fallimento per il nostro sistema scolastico e universitario, che allontana sempre più non solo le prospettive di cambiamento, ma anche quelle della ripresa. Prendersi cura dell’istruzione e della cultura è un atto d’amore. Ricordate Mor? Mor, ovvero Amore, nella Città del sole presiede all’educazione dei suoi abitanti, oltre che alla procreazione e al lavoro. Noi siamo in deficit su tutta la linea. Voi direte che di utopia si tratta, ma vivaddio, tra utopia e distopia, tra il desiderabile e l’indesiderabile ci sta in mezzo un bello spazio da riempire. Nell’ultimo anno, sei italiani su dieci non hanno letto neanche un libro, per non parlare dei quotidiani, in tanto la spesa delle famiglie italiane per il tempo libero e la cultura continua a calare, già è scesa del 6,9% rispetto al 2011. Le imprese culturali e creative si sono ridotte sempre più, con performance che sono le peggiori in assoluto del sistema produttivo preso nel suo insieme. A leggere il rapporto dell’Istat si scoprono alcune cose curiose. Ad esempio che i ragazzi tra gli 11 e i 14 anni sono i più assidui frequentatori di musei, luoghi archeologici e mostre, ma poi, appena arrivano ai 15 anni per l’80% non li frequentano più. Come è curioso che la quasi totalità dei bambini tra i 6 e i 10 anni nell’ultimo anno non abbia fatto l’esperienza di assistere a un concerto di musica classica. Qui la scuola e i genitori c’entrano, eccome. Perché se alcune abitudini non si apprendono subito da piccoli, poi è assai difficile recuperare. È come imparare a camminare e a parlare, se fin da piccoli si familiarizza con l’arte e le sue espressioni poi non si dimentica più. Questo Paese, che per lungo tempo ha considerato i musicisti baciati da Dio, ha evidentemente pensato bene di delegare tutto il lavoro a lui e di continuare a trascurare in modo indegno l’istruzione musicale dei suoi giovani. Nell’epoca degli alfabeti vecchi e nuovi, continuiamo ad essere e a crescere analfabeti musicali. Che dire dei musei, dei monumenti e del patrimonio culturale? I dati ci suggeriscono che le scuole con le uscite e i viaggi di istruzione mettono in contatto i loro allievi con queste realtà. Ma poi non sono in grado di trasformare queste esperienze in interesse, in abiti persistenti nel corso della vita. C’è un tema su cui sarebbe davvero opportuno soffermarsi a riflettere. Mi limito a citarlo. È quello delle reti. Riuscire a far rete tra sistema formativo e sistema culturale, attraverso finalità e progetti condivisi. L’obbligo per le scuole di avere personale sempre più qualificato nei settori della musica e delle arti e per le istituzioni culturali di attrezzare qualificate sezioni didattiche che interagiscano con le scuole. Manca proprio l’idea di sistema e, di conseguenza, anche l’informazione, una informazione coordinata e ragionata, che consenta alle persone di conoscere e di poter scegliere. A livello nazionale e locale perdurano la trascuratezza e l’incapacità di legare lungo il filo comune dell’educazione permanente tutte le attività organizzate dal sistema pubblico e privato finalizzate all’istruzione e alla crescita culturale dei cittadini. La formazione permanente registra un dato poco confortante. A livello nazionale solo il 6,6% è impegnato in attività formative tra i 25 e i 64 anni, una cifra assai modesta, inferiore a quella dei paesi più avanzati d’Europa, tutti oltre il 10%, e assai lontana dagli obiettivi europei da qui al 2020. Esistono i CTP, ora CPIA, Centri per l’istruzione degli adulti, forse pochi ne conoscono l’esistenza. Centri per l’alfabetizzazione degli adulti, in particolare migranti, e per il recupero dei titoli di studio, licenza media e diploma tecnico o professionale. Nonostante i meriti acquisiti sul campo, nell’epoca della società della conoscenza, proclamata solo a parole, sono ormai attrezzi superati. Perché è del tutto insufficiente un approccio basato sull’ottica scolastica del recupero dei titoli di studio, su un elenco di qualifiche professionali e su un catalogo di occasioni culturali del tutto inadeguato. Un’offerta incapace di motivare l’interesse a ritornare ad apprendere. Non può essere la scuola, per di più trascurata e con personale vergognosamente mal pagato, l’unica istituzione a cui affidare l’istruzione. Per costruire la società della conoscenza è quanto mai urgente fare rete sul territorio, organizzare e coordinare gli interventi di tutti gli attori, quelli pubblici, Stato, Regioni ed enti locali, e quelli privati, imprese, terzo settore e individui. Operativamente si dovrebbero organizzare campagne pubbliche di informazione e di sensibilizzazione che motivino i cittadini a partecipare, anche prevedendo piani straordinari per i gruppi più deboli, con incentivi e facilitazioni in tempo e in denaro.
Disporre di strutture specificatamente dedicate a svolgere percorsi di istruzione permanente dei cittadini, individuando tempi, luoghi e modi originali di apprendimento. Senza dubbio il festival dell’apprendimento, che ogni anno si celebra in tante parti del mondo, ma non nel nostro Paese e nelle nostre città, costituisce una chiave di successo su questa strada. |