«Sei proprio sicuro che sia indispensabile una riforma della scuola?». È la domanda che il Checco, una sorta di mio alter ego, noto ai lettori di La scuola di Lucignolo, mi fa spesso. I dubbi del Checco, apparentemente banali e un filo provocatori, hanno però il pregio di suggerire qualche riflessione.
Nella scuola italiana abbiamo alcuni insegnanti e dirigenti scolastici straordinari. Altri che svolgono la loro professione con impegno, ma senza grandi entusiasmi. Non mancano alcuni personaggi che cercheremo di dimenticare in fretta. Con fatica. Gli insegnanti straordinari sono quelli baciati dalle stelle. Riescono a trasmettere la magia della loro materia. Hanno la capacità di coinvolgere e appassionare un gruppo classe. E, soprattutto, non spengono, anzi alimentano la curiosità. Condizione indispensabile e irrinunciabile per la conoscenza e il sapere.
Mi riferisco a insegnanti che rimarranno sempre nella nostra memoria. Figure significative che lasceranno una traccia indelebile nel nostro percorso scolastico, infantile e adolescenziale. Li ricorderemo sempre con emozione e riconoscenza. Ha ragione il Checco, questi insegnanti non hanno bisogno di una riforma della scuola. Loro sono in aggiornamento continuo. Sono riformatori nel loro Dna. Hanno compreso una cosa fondamentale: le ragazze e i ragazzi che entrano nelle aule scolastiche non sono studenti, ma bambini e adolescenti che vanno a scuola. E la differenza è cruciale.
Persone in formazione, con storie, vissuti e caratteristiche diverse. Persone resistenti a processi di omologazione e che non vogliono e non devono essere appiattite in quel profilo mostruoso di cui parlava Claparède: lo studente medio. Trovano particolarmente indigesto e irricevibile quel sapere preconfezionato e frammentato che quotidianamente li investe, con sofferenza e noia, in molte scuole italiane. Informazioni e conoscenze che coinvolgono solo alcune anime elette, ma anche per loro, temo, senza grandi garanzie per le competenze future.
L’equazione imperfetta che, molte volte, registriamo nei posti di lavoro e che testimonia la non linearità fra i titoli formali e le competenze rimane, infatti, un dato non adeguatamente approfondito. Trascurato. Lo stato di salute della nostra scuola non può che destare preoccupazione. Per quanto riguarda gli abbandoni scolastici, fra i 27 Paesi europei (dato 2012, quindi senza la Croazia), l’Italia si colloca ancora nelle posizioni di coda: al 24° posto. Nel nostro Paese, infatti, circa 800 mila ragazze e ragazzi, nella fascia d’età fra i 18 e i 24 anni, non sono andati oltre la terza media. E, in quanto a laureati, siamo messi ancora peggio: all’ultimo posto.
L’attuale organizzazione scolastica è più funzionale a un sistema di cattedre che alla valorizzazione dei talenti. La pretesa di verificare le conoscenze di uno studente, ad esempio, su un periodo di storia o di filosofia, appesantito e frantumato da una sequela di capitoli, paragrafi, note e schemi vari, è priva di buon senso. È assurda e rappresenta la peggiore traduzione di un ruolo a 18 ore di un insegnante imbrigliato in vincoli ministeriali, in testi assurdi e in modalità di insegnamento inefficaci. Un altro esempio? Forse un giorno la smetteremo, almeno me lo auguro, di mortificare i nostri studenti con l’esercizio, sciocco e diseducativo, del tema in classe, con quel triste cerimoniale che lo accompagna: foglio di protocollo, dizionario e guai a chi copia. Occorre leggere e interpretare la realtà con onestà intellettuale e con maggiore attenzione. Quando scrivono i nostri ragazzi? A casa? Mai. Lo fanno a scuola. Purtroppo con il tema e due o tre volte al quadrimestre. Rare occasioni nelle quali vengono immediatamente travolti dalla nostra ansia di misurazione. Pazzesco!
La mia generazione non sa scrivere. In molti posti di lavoro, quando si tratta di preparare una lettera o di fare una relazione, in genere, ti ritrovi come un pirla e solo con quell’incombenza. La delega, in questi casi, è spontanea. È così difficile avviare nelle nostre scuole un laboratorio di scrittura? Non costa nulla. Facciamolo! Ma quattro o cinque volte al mese e con due momenti di valutazione nel quadrimestre. L’obiettivo non è quello di misurarli a ogni tentativo di scrittura, ma di appassionarli a questo esercizio. Vivaddio, che si tengano sul banco quello che vogliono. Devono imparare a scrivere! A tritare e a sbrogliare le informazioni. Che è poi quello che facciamo, ogni volta, noi adulti quando dobbiamo preparare un articolo, scrivere un libro o altro.
Un insegnante competente e autorevole riesce a comprendere se un ragazzo ha lavorato, se si è impegnato a dare forma di scrittura a idee, immagini ed emozioni personali. Sogno una scuola alla rovescia. Un laboratorio di ricerca con insegnanti competenti, ma senza certezze assolute. Formatori che, ogni tanto, sappiano dire: «Questo argomento, cari ragazzi, non lo conosciamo bene nemmeno noi. Approfondiamolo insieme. Avviamo una ricerca ...».
I recenti dati dell’indagine 2014 del Sistema Informativo Excelsior (Unioncamere e ministero del Lavoro), segnalano le competenze più richieste dalle aziende per i diplomati e i laureati: la capacità di lavorare in gruppo, la capacità comunicativa scritta e orale, flessibilità e adattamento (imparare a imparare), la capacità di analizzare e sintetizzare informazioni e la capacità di risolvere i problemi. Non sto immaginando una scuola appiattita sulle richieste dell’organizzazione del lavoro ma, francamente, c’è una distanza che non qualifica la scuola.
Stiamo trasmettendo un sapere del Novecento. Vecchio. Non utile. Un sapere che fatica sempre di più a raggiungere le nuove generazioni. In qualità di insegnanti, inoltre, quando verifichiamo che i risultati dei nostri ragazzi sono distanti dagli obiettivi didattici, li aspettiamo al varco deprimendoli con criteri e modalità di valutazione che, in alcuni casi, richiederebbero un intervento sanitario. Mi riferisco a voti assurdi, imbrigliati in una logica matematica e, spesso, rappresentati con insensate quote decimali (3,8 / 4,9 / 1,8 ). Un sistema di misurazione che sembra rappresentare le nostre frustrazioni e le nostre aspettative. A nostro giudizio, tradite.
La scuola non può e non deve rinunciare alla valutazione, ma l’obiettivo principale è quello di rimotivare e incuriosire le persone e non di ferirle. La scuola è il luogo elettivo per l’errore. Condizione indispensabile non per enfatizzare tale evenienza ma per responsabilizzare e far crescere, in modo consapevole ed equilibrato, le ragazze e i ragazzi delle nuove generazioni. In molte situazioni registriamo una solitudine pedagogica, vissuta non come una privazione, ma basata su certezze incrollabili. In questo modo non si riesce a decontestualizzare l’esperienza, con il rischio di riproporre esperienze e interventi non utili. A volte dannosi.
Non è facile fare l’insegnante. Professione non sostenuta da adeguati riconoscimenti economici e sociali. Ma ciò che colpisce, in alcuni casi, è un livello critico di stanchezza e di demotivazione. Con una resistenza al confronto con i colleghi e alla formazione che, nell’attuale proposta del governo, dovrebbe diventare obbligatoria. Speriamo gestita in modo efficace e non burocratico, ma anche accolta con maggiore consapevolezza e un po’ di entusiasmo.