I presidi-conti aspirano all’omaggio feudale

In risposta a Gianni Zen (dirigente scolastico)

chi pensa alle facoltà intellettive, espressive e relazionali come qualcosa che si possa scindere dall’uomo, farne una merce da comprare e utilizzare alla bisogna, gettando via quel fastidioso resto di carne e di sangue che talvolta si ammala …..

 di Effe Rosso, ReteScuole 30.12.2014

Gianni Zen, invocando una “rivoluzione rivoluzionaria” che va piuttosto chiamata col corretto nome di “reazione”, pungola il governo a maggiore fermezza nel rimuovere ogni vincolo ai licenziamenti nel pubblico impiego e, in particolare per gli insegnanti. Essendo egli un dirigente scolastico, s’avverte come un prudere di mani, uno scalpitare della sua penna che attende il là per poter espellere quelli che giudica insegnanti indegni e che ora, come i suoi poveri colleghi, deve limitarsi a “spalmare” sulle classi in modo che non facciano troppo danno agli amati studenti. Occorre che il lettore sia mosso a compassione per l’impotenza a cui il perfido MIUR e il governo condannano i loro più leali e volenterosi alfieri nonché paladini della migliore “formazione dei giovani”.

Poi si esce dalla retorica e ci si imbatte nei fatti. Che ci dicono che il dirigente scolastico, dall’autonomia scolastica in avanti, ha via via accumulato poteri tali da porsi all’interno del proprio istituto quale autarca di una repubblica autonoma. Quanto alla retribuzione, mentre il salario dei docenti perdeva circa il 30% del suo potere d’acquisto, per non parlare del vergognoso trattamento riservato ai neoassunti, quello dei dirigenti è andato crescendo fino a risultare triplo rispetto a coloro che la scuola la portano avanti giorno per giorno. La legge 150/2009, ciliegina sulla torta, ha conferito al dirigente scolastico la facoltà di istruire procedimenti disciplinari e definirli in via monocratica, ossia svolgendo nel processo insieme il ruolo di pubblico ministero e di giudice. Non è un caso se il clima che si respira nelle scuole è di paura, esplicite o meno che siano le intimidazioni a “collaborare”.

E qui casca l’asino. Perché coloro che, come Gianni Zen, auspicano l’assolutismo dirigenziale, postulano l’assioma secondo cui quel “collaborare” vada a beneficio della scuola e, soprattutto, dei ragazzi. Un assioma falso, in quanto il giudizio di un singolo individuo, per quanta intelligenza e buona fede gli si attribuisca, resta un parere. Tanto più se formulato senza esperienza diretta di ciò che si giudica, come appunto avviene allorché un dirigente scolastico, che non vive nelle classi e talvolta non vi entra neppure in modo episodico, esprime una valutazione su un insegnante. Senza contare che l’insegnamento vive di pluralità di pareri, di metodi e di approcci, lo dice la Costituzione e sarebbe opportuno ricordarsene.

Ma se i poteri di intervento di cui dispongono sono già tanto ampi e se un giudizio individuale non può condizionare l’insegnamento, cosa vogliono davvero i dirigenti scolastici? Evidentemente l’omaggio feudale, che prescinda dalla legge, da quegli adempimenti in cui si sostanzia, per contratto e per deontologia, il lavoro dell’insegnante. Nessuno può smentire che l’insegnante che li viola possa già oggi subire sanzioni fino al licenziamento; un dirigente può persino disporre – da solo – accertamenti sulla salute mentale a cui il lavoratore non può sottrarsi. Ciò che un dirigente oggi non può impunemente fare è pretendere la reverenza personale, l’inginocchiarsi ai suoi capricci, che siano l’accompagnare le classi in gita, magari in precarie condizioni di sicurezza, l’effettuare ore aggiuntive di supplenza, il dare un taglio confessionale alle proprie lezioni bandendo magari l’educazione all’affettività e alla parità di genere, astenersi dall’esprimere critiche e dissenso su scelte didattiche e organizzative, organizzare progetti extracurriculari che permettano di competere con le scuole concorrenti e magari raccogliere contributi “volontari” dai genitori, organizzare spettacolini promozionali della scuola. Per tutto questo si può usare il termine “collaborare”.

Ma se fin qui siamo ancora sul lecito seppur discutibile, il nodo della questione attiene al politicamente criminale. Giacché chi ha più da perdere da un insegnamento soggetto al giogo e alla mordacchia non sono gli insegnanti ma proprio quegli studenti di cui – con tipico fare da mercanti – ci si finge di preoccupare. Sono storia nota le pressioni esercitate dai dirigenti per alzare i voti negativi espressi dagli insegnanti, in nome di quel “successo formativo” di cui con vigliacca menzogna si imputa l’intera responsabilità al docente, come se a concorrervi non fossero le condizioni organizzative, le condizione socio-economiche, la famiglia per le fasce d’età più basse e, soprattutto, per le fasce d’età più alte la volontà dello studente stesso. Agli occhi del pubblico insufficienze e bocciature, per quanto motivate, sono macchie spiacevoli, assai meglio offrire una copertina patinata che trasudi efficienza e ottimismo. Pazienza se quei finti “successi” priveranno dei giovani di un’opportunità – magari l’ultima – di recupero verso una vera emancipazione civile e culturale, e pazienza per quei loro compagni che vedranno il proprio impegno e i propri risultati svuotati di senso in un egualitarismo irresponsabile e, questo sì, vizioso. Ma altre macchie da nascondere possono altresì scaturire da inadempienze dell’istituto, burocratiche, in materia di sicurezza, di assistenza ai diversamente abili, di igiene e così via, che l’insegnante collaborante può essere indotto a fingere di non vedere, per l’immagine dell’istituto – e del suo benemerito dirigente, il quale ahimé rischierebbe anche qualcosa di tasca sua se certe magagne saltassero fuori.

Non è il caso, mi auguro, di Gianni Zen, il quale non c’è motivo di dubitare che eserciterebbe il proprio ruolo epurativo con acribia e scrupolo giuridico, ma anche con la tara neoliberista di chi pensa alle facoltà intellettive, espressive e relazionali come qualcosa che si possa scindere dall’uomo, farne una merce da comprare e utilizzare alla bisogna, gettando via quel fastidioso resto di carne e di sangue che talvolta si ammala, cerca una realizzazione familiare oltre che lavorativa, per migliorare anche nel proprio lavoro coltiva interessi e passioni che magari non coincidono con quelle del dirigente scolastico e, dopo aver speso anni di energia e di fiato, succede persino che invecchi: “sotto contratto non sono le persone, ma le loro competenze, la loro disponibilità, la loro passione e dedizione”.
 

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