Merito e carriera: ecco perché Anna Maria Bellesia, La Tecnica della Scuola 26.12.2014 Né carriera, né merito, né retribuzione di merito: non c’era niente sotto gli slogan della Buona Scuola presentata il 3 settembre. L’esito della consultazione, anche se poco partecipata, ne ha evidenziato i punti deboli ed ha opportunamente suggerito che un ripensamento è necessario. Il piano iniziale della Buona Scuola La carriera prospettata era solo un portfolio di crediti didattici, formativi e professionali. Dal punto di vista stipendiale, era una semplice progressione economica saltuaria, addirittura inferiore agli scatti di anzianità. La ridicola misura del compenso (metà di una tredicesima) era tale da inficiare alla base qualsiasi serio discorso sul merito. Essendo poi la quota di “bravi” fissata al 66%, nella scuola si sarebbero scatenati controproducenti meccanismi competitivi e un peggioramento delle relazioni. Niente di tutto questo avrebbe dato “dignità” alla professione docente, già troppo avvilita. L’esito della consultazione I risultati presentati il 15 dicembre indicano una strada diversa da quella delineata inizialmente. E il Governo in qualche misura dovrà tenerne conto. Alla domanda: “A cosa serve la valutazione del docente?”, ben il 90% ha risposto “Costruire percorsi di miglioramento”. Alla domanda: “La valutazione deve modificare la retribuzione?”, l’81% ha risposto che il merito deve contribuire alla crescita stipendiale dei docenti. Però il 46% dà la preferenza ad un sistema misto fra anzianità e merito. Percentuale che sale al 56% fra i docenti. Con la precisazione che “il merito non deve intaccare la collegialità di lavoro”. Nella scuola, i meccanismi competitivi sono da evitare. Non occorreva che ce lo dicesse una consultazione, lo sapevamo. La scuola offre un servizio di istruzione, formazione, educazione, si ispira ai valori enunciati nella Costituzione, non è una azienda. Da dove ripartire allora per trovare condivisione su quale sia il merito del docente? L’indicazione giusta la troviamo, guarda caso, nelle risposte date alla domanda: “Cosa definisce un buon docente?”. La quasi totalità ha risposto: “La qualità del lavoro in classe”. In subordine troviamo: “La capacità di collaborare con i colleghi” e “La capacità di migliorare la qualità della scuola”. L’impegno in altre attività funzionali o progettuali viene di gran lunga dopo. È evidente dunque che il sistema dei crediti “a punti”, come inizialmente proposto, dovrà essere profondamente rivisto. Le proposte al Governo della 7^ Commissione Senato È articolato in 16 punti conclusivi il documento indirizzato al Governo, approvato in 7^ Commissione Senato lo scorso 18 dicembre su proposta della Puglisi, responsabile scuola del PD. Riguarda la scuola a tutto tondo, dalla valutazione del riordino della secondaria di II grado, al precariato, al potenziamento di alcune materie. Altri punti riguardano il personale. La formazione in servizio dei docenti diventerà obbligatoria, ma non deve essere uno “strumento per accumulare punteggio”, bensì garantire momenti di confronto, di riflessione, di scambio di esperienze. Quanto al sistema dei crediti per la progressione di carriera, la raccomandazione è di “far sì che la valorizzazione dei singoli non metta a repentaglio la dimensione cooperativa del lavoro degli insegnanti”. Inoltre, l’esito della consultazione suggerisce di “valutare l’opportunità di mantenere un sistema misto di avanzamento stipendiale fatto di anzianità e merito”. Anche l’esperienza maturata negli anni ha e deve avere un peso riconosciuto. E pare che questo sarà l’orientamento del Governo. Ma qualità e carriera restano nel vago Se è vero che la “qualità del lavoro in classe” fa il bravo docente, come hanno risposto in coro i partecipanti alla consultazione, manca attualmente una qualsiasi proposta che definisca e valorizzi tale aspetto. La qualità del lavoro in classe dipende in parte dall’aggiornamento professionale, ma soprattutto dal lavoro quotidiano di preparazione delle lezioni, del materiale, dei compiti, correzione delle verifiche, valutazione dell’apprendimento, messa a punto di strategie migliorative, comunicazione ecc… Insomma tutto quel lavoro sommerso, non quantificato, non misurato, non riconosciuto, che fa la differenza fra chi si impegna e chi meno. Perché non esplorare questo campo? Se poi, come emerso inequivocabilmente dalla consultazione, la “carriera non è solo progressione economica”, ma “riconoscimento di una pluralità di ruoli nella crescita professionale”, il passaggio obbligato è la definizione di un nuovo status giuridico dei docenti. Certamente non basta il “portfolio” fatto di crediti didattici, formativi e professionali che può portare alla “premialità” economica, mentre la carriera resta piatta dall’inizio alla fine. Guardiamo all’Europa: Francia e Spagna Sono due sistemi diversi: centralistico quello francese, con molto spazio alle Comunità locali quello spagnolo. In comune hanno una vera prospettiva di carriera per il corpo docente, che non si intravede in Italia. In Francia ci sono varie categorie di professori, ognuna articolata in livelli progressivi di carriera. L’avanzamento dipende dalla valutazione esterna (fatta dagli ispettori). Oppure, per passare da una categoria all’altra, ci sono i concorsi. Il livello più elevato può essere raggiunto già dopo vent’anni. In Spagna, per raggiungere livelli superiori di status o svolgere ulteriori funzioni, si procede per titoli e prove selettive. Conta anche l’anzianità. L’inquadramento è analogo a quello degli altri funzionari pubblici. Da noi invece, col sistema dei crediti e del portfoglio, dopo 40 anni potrebbe esserci una progressione solo economica e solo per alcuni. Non si arriverebbe mai ad un avanzamento stabile di status. Quindi, se manca la “concreta prospettiva personale di crescita professionale”, mancherà anche la spinta motivazionale. Pare che finora questo non sia stato capito. Per uscire dal “grigiore” mancano le risorse Un altro aspetto del tutto ignorato è la consistenza del “premio”, cioè il profilo retributivo. Ci dicono che “soprattutto i giovani insegnanti sono allettati dall’idea di non dover più attendere sei anni per veder incrementare il proprio stipendio” e non vedono l’ora di “tornare ad investire sulla propria professionalità” per uscire “dal grigiore dei trattamenti indifferenziati”. E dopo? Se la cifra ottenibile consiste nelle metà di una tredicesima mensilità, che andrebbe ad integrare uno stipendio fra i più bassi d’Europa, chi sarebbe incentivato ad impegnarsi in qualità e quantità per una vita lavorativa sempre lunga, fino ai 67 anni e presto anche oltre? Siamo seri. Per ridare “dignità” alla professione ci vuole ben altro che i soliti fichi secchi. |