scuola Assunti per concorso, intoccabili a vita. Perché? di Gianni Zen, il Sussidiario 30.12.2014 La rivoluzione di Renzi non è abbastanza rivoluzionaria. Invoca strategie, ma vive di tattica, compresa la salomonica conclusione “deciderà il Parlamento”, sapendo che oggi non è certo il Parlamento il cuore decisionale del nostro Paese. Se mettiamo a confronto le mille dichiarazioni degli ultimi due anni, con il riscontro finale sulla “Buona Scuola” ed alcuni provvedimenti, come la polemica di queste ore tra il sen. Ichino ed i ministri Madia e Poletti sull’applicazione ai dipendenti pubblici del Jobs Act, il quadro che ne esce non è tra i più incoraggianti. Invece di partire, per quanto riguarda il mondo della formazione, dall’assioma “un giovane ben formato è una risorsa in più”, si preferiscono continui effetti-annuncio, quasi a coprire difficoltà oggettive ma anche proprie incapacità di unire i due valori -base di una politica con la P maiuscola: sapere la verità sullo stato del proprio Paese e decisioni eque secondo un’etica delle responsabilità. Partire, dunque, da quell’assioma per ridisegnare un “servizio pubblico” che sia capace di garantire, pur nella problematicità dei processi, quel “risultato”. Oltre le cortine di ferro ideologiche, contrattuali, comportamentali. Dunque, in gioco è la qualità di questo particolare “servizio pubblico”, il quale, in senso più generale, deve partire comunque dalla pari dignità di tutti i lavoratori, senza più arcaiche differenze tra lavoro pubblico e lavoro privato. Poi, all’interno del lavoro pubblico, fatto salvo il principio costituzionale dell’assunzione con concorso pubblico, devono valere le stesse regole, secondo – appunto – pari dignità, perché concorso non significa inamovibilità, cioè intoccabilità. Il che significa che il concorso, ad esempio dei docenti, non deve significare “ruolo a vita”, ma via privilegiata, perché “meritata”, per un contratto che garantirà un lavoro a vita se una persona, però, si “meriterà” questa fiducia. Non a prescindere. Nel mondo della scuola questo è il vero vulnus, mai portato allo scoperto. Basta chiedere ai presidi, durante l’estate, cioè nei momenti di costruzione delle “cattedre” per i docenti: da un lato spalmare i docenti in difficoltà su più classi, dall’altro chiedere a quelli in gamba di sanare le situazioni critiche. Con tutti lo stesso stipendio. Ma questo vale anche per i presidi, come per tutto il personale Ata: la struttura contrattuale non può più prescindere dalle persone che sono chiamate a ricoprire ruoli e responsabilità. Del resto, lo sappiamo, sotto contratto non sono le persone, ma le loro competenze, la loro disponibilità, la loro passione e dedizione. In un tempo di “vacche magre”, di disconoscimento del valore e del merito, con un blocco contrattuale che sta penalizzando centinaia di migliaia di persone in gamba (la stragrande maggioranza dei docenti), cogliere la palla al balzo della equità dei lavoratori, pubblici e privati, è il volano che può ridisegnare e ripensare la domanda di qualità del servizio docente, come il servizio di coordinamento dei presidi e di ausilio e supporto del personale non-docente. Quando i sindacati, finalmente liberi da ruoli da “surrogato politico”, inizieranno a ripensare a come rimuovere questo vulnus? “L’umanità è molto vecchia, l’eredità, gli incroci hanno dato una forza insuperabile alle cattive abitudini, ai riflessi viziosi”, ammonisce Proust ne La prigioniera.
Caro direttore, da insegnante ho letto con comprensibile interesse nei giorni scorsi, sul sito Eduscopio della Fondazione Giovanni Agnelli, le "classifiche" degli istituti superiori della mia provincia, Pordenone, e del vicino Veneto. Emergono dagli esiti ottenuti dai diplomati delle varie scuole d'Italia nel primo anno di università , per esami superati e voto medio riportato negli stessi: tutti raffrontati esclusivamente all'interno di uno stesso indirizzo liceale, classico o scientifico o linguistico o di scienze umane; o di una stessa tipologia di istituto tecnico. Dopo aver constatato con soddisfazione il buon livello ottenuto dal mio liceo statale, ho letto sul suo giornale alcune riserve e critiche alle graduatorie FGA: riserve che non condivido, a cominciare da quelle del preside Gianni Zen che cita don Milani: "se si perde loro [i ragazzi difficili] la scuola non è più scuola. E' un ospedale che cura i sani e respinge i malati". A parte il fatto che, con tutto il rispetto per don Milani, paragonare un ospedale a una scuola mi fa rabbrividire, oggi non siamo più ai tempi di quei ragazzi a rischio di emarginazione: c'è una varietà di opzioni scolastiche sin dal biennio superiore - a mio avviso anche eccessiva - grazie alla quale uno studente può scegliere nell'ambito dei percorsi liceale, tecnico e professionale ciò che più gli aggrada, anche in base al carico di studio teorico che è disposto a sopportare. Purtroppo però questa prima, sacrosanta selezione da operare, è spesso vanificata nei fatti: perché, come Zen giustamente ricorda, in Italia le famiglie possono scegliere la scuola superiore dei figli ignorando gli esiti riportati dagli stessi nei precedenti anni scolastici. Se poi il titolo "liceo scientifico" suona bene, a tutti i costi quello, per i loro rampolli, dev'essere. E nessuno mi venga a dire che è ovvio, che bisogna aiutare il discente dopo che ha compiuto una scelta adeguata: perché spesso quella scelta non c'è stata. In altre parole, l'orientamento - lo ripeto, la prima sacrosanta selezione - è stato sacrificato alla logica scolastico-burocratica del boom di iscritti che va a braccetto con quella di non poche famiglie per le quali il liceo, quando non addirittura una laurea conseguita in certe università , divengono uno status symbol. A fronte di ciò, poco può fare un preside ridotto a manager o, come ironicamente annota Giorgio Israel, plasmato dal ruolo istituzionale di rispondere alla "customer satisfaction": così talvolta si mescola il vero obiettivo, l'en plein di iscritti, alla carità pelosa dell'accoglienza a tutti i costi. Tornando a Zen, accogliere e aiutare si deve, ma solo dopo aver richiamato i primi attori sulla scena — famiglie e studenti — a una minima iniziale assunzione di responsabilità. Avvenuto ciò, la palla torna alla scuola: e allora via libera all'aiuto, all'incoraggiamento, al favorire ogni possibile maturazione, personale e cognitiva, nello studente. Forse per questi motivi, cercando invano ai piani alti delle classifiche FGA anche qualche scuola cattolica del mio angolo di Triveneto, le ho viste quasi tutte in fondo, peraltro accanto a non poche statali. Né mancano gloriose eccezioni: a Vittorio Veneto il liceo linguistico "Santa Giovanna d'Arco" e, in pole position nelle classifiche nazionali, l'istituto don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e il Sacro Cuore di Milano che si ispirano a Cl. Ma non penso che ciò sia avvenuto grazie al carisma di don Giussani anche se, nell'intervista al sussidiario, il rettore del don Gnocchi insisteva sulla comune adesione al progetto del sacerdote lombardo. Rimango dell'idea che carisma e fede debbano sì illuminare l'accidentato sentiero dell'impegno, del merito e del duro lavoro di studenti e insegnanti, ma senza poter in alcun modo sostituire le responsabilità, talvolta dure, cui ciascuno è chiamato. E' questo l'unico "valore aggiunto" che sono disposta a riconoscere alla scuola. E credetemi, non c'entra nulla con le logiche darwiniane e con la iper-selettività paventate da Zen. E' solo la scuola che vorrei: palestra di vita, non limbo per futuri disadattati, non specchio della crisi che corrode il Paese. |