E il livello di competenza
nelle aziende non va molto meglio
Il Sole 24 Ore
23.12.2014
L’inglese è il passepartout per il mondo del lavoro. Le aziende pretendono un ottimo livello dai candidati ma al loro interno ancora lo masticano poco. A partire dai dirigenti. Una scarsa competenza che prescinde dunque dalla posizione ricoperta nell’organigramma aziendale ma anche dalla dimensione dell’impresa stessa. Lo conferma l’indagine condotta da Ef sulla forza lavoro di 22 settori imprenditoriali in 32 nazioni che ha messo in luce come, in più della metà dei paesi analizzati, le aziende abbiano mostrato uno scarso livello di conoscenza dell’inglese. E le cause sono tutte da ricercare nel ritardo culturale e nell’inadeguatezza del sistema scolastico. Ma quando non si riesce a comunicare, i problemi si moltiplicano. Difficile infatti, senza l’inglese, affacciarsi sul mercato globale, firmare accordi, promuovere investimenti, piazzare prodotti. La padronanza
della lingua, chiarisce lo studio, ha un’incidenza diretta sul livello di competitività, sulla capacità di innovazione e sulla ricchezza. E non mancano altri sondaggi che confermano i benefici di sapere l’inglese per grandi colossi come per piccole imprese, dallo stagista al dirigente.
Chi sa l’inglese è più competitivo
Non è un caso che le aziende più competitive siano quelle con un più alto livello di conoscenza della lingua inglese. Il rapporto Ef Epi-c (Ef English proficiency index for companies) chiarisce come comprendere un documento o un contratto in un’altra lingua, avere una capacità di linguaggio tale da entrare, persino, in empatia con gli altri porti maggiori profitti e minori perdite (dovute a problemi di comunicazione), faciliti gli affari, aumenti la competitività. Un sondaggio della JPMorgan Chase ha rilevato che nel 2013, a livello mondiale, il 61% delle medie imprese ha operato sui mercati internazionali; una percentuale in aumento rispetto al 58% del 2012 e al 43% del 2011. Sta diventando dunque sempre più comune per lavoratori e imprese di qualsiasi dimensione interfacciarsi con clienti, colleghi, fornitori e partner esterni al loro mercato. Al di là che siano
piccole, medie o grandi, le aziende che prosperano in queste condizioni sono quelle i cui dipendenti hanno la formazione e le competenze necessarie per comunicare in modo efficace, senza frontiere. Già al loro interno. Pensiamo ai casi di aziende come Rakuten, Nokia, Samsung e Renault che stanno adottando l’inglese come lingua aziendale.
Investire in formazione premia
Secondo il team dell’istituto Ef la relazione tra padronanza dell’inglese e livello di produttività nazionale pro capite suggerisce «l’esistenza di un ciclo virtuoso che dimostra come un buon livello di inglese assicuri salari più alti, che a loro volta danno ai governi più risorse da investire nello studio della lingua». Stessa cosa possiamo dedurre succeda, su scala minore, per il singolo individuo. Per esempio, in India, i dipendenti che parlano correntemente l’inglese guadagnano, in media, un salario orario del 34% superiore rispetto a coloro che non lo parlano. Da un altro sondaggio condotto da Illuminas nel 2014 è emerso che il 79% dei dirigenti di aziende multinazionali che hanno investito nella formazione linguistica del proprio personale ha sperimentato un aumento delle vendite. E non mancano altri benefici tra cui, come evidenza la ricerca Ef Epi-c, la
produttività dei dipendenti e la soddisfazione dei clienti.
La sfida parte dai dirigenti
Bisogna capovolgere la piramide organizzativa quando parliamo di capacità di comunicare in inglese. Secondo la ricerca dell’Ef, infatti, in quasi la metà dei Paesi esaminati, la capacità di comunicare in inglese da parte dei dirigenti è risultata inferiore alle seconde linee e ai collaboratori. Mentre i più bravi sono i quadri. In un altro sondaggio della Economic intelligence Unit (Eiu) effettuato su 572 dirigenti di aziende multinazionali, quasi la metà di essi ha ammesso che «equivoci di base hanno ostacolato importanti opportunità di affari internazionali, causando perdite significative per le proprie aziende». Una confessione non di poco conto.