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Scuola, la priorità della politica è l'inglese Il ministro Giannini, come i suoi predecessori, ribadisce l'importanza di insegnare la lingua ai ragazzi. Ma oltre alle promesse cosa succede quando si devono preparare i docenti? Tra corsi via web da 50 ore e tutor privati a pagamento, ecco perché la scuola arranca di Francesca Sironi, L'Espresso 16.12.2014 Inglese. Inglese. E... inglese. La priorità della scuola sembra essere tornata la prima delle “tre I” del governo di Silvio Berlusconi. Oggi come ieri il tema centrale dell'istruzione resta infatti l'inglese, anche se ora l'esecutivo è di Matteo Renzi e le parole d'ordine le scrive il ministro Stefania Giannini (a cui non dispiacciono d'altronde nemmeno le altre due "I": informatica e impresa). Il 15 dicembre, illustrando i risultati della consultazione online sulla riforma scolastica, il ministro dell'istruzione ha ribadito un aspetto a lei caro, questa volta supportato dal “ce lo chiede la gente”: gli alunni devono imparare le lingue straniere sui banchi e arrivare al lavoro o all'Università capaci di comunicare con il resto del mondo. Non possiamo, insistono docenti, familiari, studenti e funzionari, restare muti nei test internazionali.
Quindi, l'inglese. Il problema è: quale? Dall'introduzione dell'“How are you” fra le materie d'obbligo in classe (era il lontano 1990), il tema della lingua è diventato il motore di un vortice burocratico dai risultati altalenanti, con docenti che hanno sgobbato per 500 ore superati nell'assegnazione delle cattedre da insegnanti abilitati con semplici lezioni via Web; tutor pagati a caro prezzo che competono con un'offerta pubblica praticamente inesistente in alcune regioni; fino all'introduzione obbligatoria da (quest'anno) dell'insegnamento in inglese di almeno una materia all'ultimo anno delle superiori. Iniziativa lodevole, ma nata zoppa: manca ancora una volta la formazione.
Con i fondi messi a disposizioni dal ministero nel 2014 si potrebbero abilitare in tutto, al massimo, 1.230 insegnanti. Pochissimi rispetto all'obiettivo. Così gli istituti più attenti se la son cavata da soli , raccogliendo i risparmi per pagare l'aggiornamento professionale o contando sulla buona volontà dei prof. È questo l'inglese da cui ripartire? Nel 2008 il ministro Mariastella Gelmini, convinta sostenitrice dell'educazione internazionale, aveva pensato di avviare il new deal abolendo dalle elementari la figura dell'insegnante specializzato in inglese, che esisteva da quasi vent'anni. Al posto dei laureati in Shakespeare, la norma ha imposto corsi di abilitazione per le maestre assunte a tempo indeterminato. «Io mi sono vista obbligata a diventare maestra comune», ha scritto ad aprile al Corriere della Sera una docente, Paola Ghezzi: «Così noi ex specialisti, con anni di studi alle spalle, continuiamo a insegnare inglese solo nella nostra classe, insieme ad altre discipline; mentre colleghi che hanno superato un solo esame di inglese durante la laurea o hanno seguito ridicoli corsi da 150 ore si sono visti assegnare classi in lingua straniera, con le conseguenze che possiamo immaginare».
Non è la sola a lamentare il paradosso. Anche Domenico Liotti, insegnante elementare di Torino, autodenunciava a Orizzonte Scuola la sua condizione: «In Piemonte dopo 50 ore di corso estivo, neanche concluse, di cui 20 online, si può essere chiamati a insegnare inglese nelle classi. Con quale criterio potrò trasmettere la lingua io che non l'ho mai studiata? È una barbarie educativa!». Se alle elementari, fino ad oggi, è andata così, alle scuole superiori la situazione non è migliore . A novembre del 2013 sono stati stanziati 2 milioni e 450mila euro per la formazione di circa 18mila docenti. L'obiettivo era prepararli ai “ Clil: content and language integrated learning ”, ovvero alle lezioni di materie impartite in inglese anziché in italiano; un modello molto efficace, sperimentato in alcuni licei, che da quest'anno dovrebbe essere esteso a tutti gli istituti superiori. I fondi erano stati distribuiti agli uffici regionali in base al numero di professori da abilitare attraverso corsi che potevano essere sia pubblici (universitari) che privati. I soldi servivano innanzitutto per lo “standard”: 130 ore di inglese per arrivare al livello “B2” di conoscenza della lingua. Quindi un'integrazione per chi era già più a suo agio con l'accento british; e infine un percorso “Metodologico-didattico” che avrebbe sancito la piena capacità del candidato a trasmettere sapere ai suoi discepoli nella lingua di Albione. In tutta Italia di questi ultimi step ne sono stati attivati solo 67: sufficienti a formarecirca 1.675 docenti, considerando classi da 25 persone. E dove? Ci sono regioni-campione come la Sicilia: che ne ha avviati 11, record nazionale. E altre come la Basilicata, le Marche, il Molise, e la Sardegna dove le lezioni speciali avviate sono state pari a zero. In mezzo la Liguria, con un solo corso, l'Umbria con 2 e così via. Il primo dicembre sono arrivati i nuovi fondi: 500mila euro suddivisi per tutte le regioni, per 41 corsi universitari su come diventare "Clil"-esperti che potranno ospitare da un minimo di 20 a un massimo di 30 partecipanti. In tutto si potrà così aspirare ad avere forse 1.200 docenti formati. In tutta Italia. Mentre si affollano le offerte da istituti privati, che offrono agli insegnanti pubblici tutor madrelingua per agguantare il livello “B2” e adattarsi ai nuovi standard. Costo? Da 500 a 5mila euro. Il problema intanto restano i risultati: ovvero le traballanti performance degli studenti italiani nei test internazionali d'inglese. L'ultimo rapporto dell'Ef (Education First) ci mette al quintultimo posto in Europa (continente, Turchia e Russia comprese), peggiori di tutti insieme a Francia, Ucraina e, appunto, a Mosca e Istanbul. |