Il mix Patto di stabilità-tagli «blocca»
da oltre 15 anni la spesa per l’istruzione
di Davide Colombo,
Il Sole 24 Ore
11.12.2014
Si ha un bel dire che la spending review va praticata in tutti i settori, compresa la scuola. Perché se è vero che gli sprechi non mancano anche qui, è vero anche (e soprattutto) che nel lungo periodo la spesa per l’insegnamento e l’edilizia scolastica praticamente non s’è mossa. Lo rivela un’interessante analisi che verrà pubblicata in gennaio da due studiosi, Nicola C. Salerno e Stefania Gabriele, che hanno anticipato i risultati macro più importanti sul sito Reforming.it. Dal 1996 al 2012, si scopre con un banale sguardo ai grafici principali proposti, la spesa complessiva in termini reali, ovvero deflazionati sulla base della serie storica dell’indice IPC Istat, risulta invariata. Significa che i circa 54 miliardi contabilizzati nel 2011 equivalgono, in termini di parità di potere di acquisto, all’aggregato di uscite registrato nel 1996. Si tratta della spesa
analizzata sul dataset del Dipartimento politiche sviluppo che, nello studio finale, verrà disaggregata con valori pro-capite e a livello regionale. La spesa in questione va dai servizi per la pre-infanzia fino al comlpletamento delle scuole medie superiori; ovvero per utenti da 0 a 19 anni.
Dal Patto di stabilità ai tagli lineari
Ebbene, a guardare quelle curve sembra di rivedere al contrario il film delle politiche pubbliche per la scuola dell’ultimo quindicennio, sempre accompagnata dalla costante retorica secondo cui «non bisogna mai disinvestire sull’istruzione». Politiche che, di volta in volta, hanno incrociate con le misure di consolidamento fiscale imposte dalla fragilità della nostra finanza pubblica. Ecco allora il primo “fatto stilizzato” sulla curva della spesa in conto capitale, che dal 1996 al 2001 s’impenna fino a valori doppi per poi crollare subito dopo. Che cosa è successo? Semplice, è entrato in vigore il Patto di stabilità interna (2001), quell’elegante strumento che in un assetto di semi-federalismo fiscale e amministrativo come il nostro s’è tradotto in un taglio secco ai trasferimenti dalla Stato alle amministrazioni periferiche. Il secondo “fatto stilizzato” lo si
incontra poi tra il 2008 e il 2009, seguendo questa volta la curva della spesa corrente. Dopo aver zigzagato attorno a un più o meno 20% è riprecipitata sugli stessi valori reali nel 1996 dopo i tagli lineari varati dal Governo Berlusconi (ministro dell’Economia Giulio Tremonti e al Miur Mariastella Gelmini).
Le Regioni che perdono e quelle che restano al palo
Naturalmente la non-crescita della spesa pubblica per la scuola è stata diversa tra il 1996 e il 2012, tra regione e regione. Ci sono casi in s’è verificato un taglio secco per le uscite in conto capitale (Basilicata, Sicilia e Liguria) e casi in cui le variazioni di crescita percentuale annua sono ben sopra l’inflazione. Due esempi per tutti (rinviamo alle tabelle allegate a questo articolo per una lettura completa): in Basilicata la spesa nominale è passata dai 36,4 milioni di euro del ’96 ai 22,8 del 2012 (-2,33% annuo), mentre in Umbria l’andamento è stato opposto, con variazioni annue del +9,62 per cento. Minori ma non meno importati le divaricazioni sulla spesa corrente, cresciuta in termini nominali dell’1,22% annuo nel quindicennio in Basilicata, mentre nella più ricca e fortunata provincia autonoma di Bolzano è lievitava anno dopo anno su medie del
7,49%. A gennaio, quando il Governo varerà il piano per la buona scuola, sarà bene tener sotto mano le tabelle e l’analisi di Salerno e Gabriele, possono tornare molto utili sia al legislatore sia a chi amministra istituti di ogni ordine e grado.