SCUOLA

La #svoltabuona? Identikit
del docente in tempo renziano

Negli ultimi 40 anni, la scuola è stata prevalentemente considerata dalla politica un contenitore per assorbire "manodopera intellettuale". Renzi ne è la conferma

di Patrizia Ciava, il Sussidiario 8.12.2014

Negli ultimi 40 anni, la scuola è stata prevalentemente considerata dalla politica un comodo contenitore per assorbire “manodopera intellettuale”. Concorsoni, scuole di specializzazione, corsi abilitanti hanno contribuito a gonfiare oltremisura gli organici e generato una pletora di precari delusi e frustrati, la cui stabilizzazione è stata di volta in volta decretata da estemporanei provvedimenti e sanatorie, finalizzati più che altro ad ottenere consensi in fase pre­elettorale.

Il piano per la “Buona Scuola” di Renzi non si discosta affatto da questa logica.

Sbandierata come la #svoltabuona che pone finalmente la scuola tra le priorità del governo, la riforma è stata, di fatto, dettata dalla necessità di risolvere l’annosa questione dei precari — anticipando probabilmente anche l’attesa sentenza della Corte Europea — e cercando, con una partita di giro, di far gravare i costi per la loro assunzione unicamente sul bilancio del comparto scuola.

In quest’ottica si inserisce la pretesa valorizzazione della figura professionale del docente, con l’introduzione di una “progressione di carriera basata sul merito”, che nasconde, in realtà, una consistente riduzione della spesa derivante dal taglio agli scatti di anzianità.

Nel piano di riforma è previsto che un docente sarà giudicato meritevole sulla base delle attività aggiuntive che è disposto a svolgere e avrà così diritto ad uno “scatto di competenze” con un bonus di 60 euro in più in busta paga in tre anni.

Tradotto in parole povere, gli insegnanti dovranno dedicarsi a compiti extracurricolari che poco o nulla hanno a che fare con la didattica, sottraendo tempo alla preparazione delle lezioni e alla correzione dei compiti, nella speranza di ottenere, dopo tre anni, un aumento comunque inferiore a quello che avrebbero ottenuto con gli scatti di anzianità. Quest’ultimi, per giunta, saranno immediatamente aboliti, mentre gli scatti di competenza non si potranno ricevere prima del 2018; facile calcolare il risparmio che ne deriverà per l’erario.

Inoltre, solo al 66% dei docenti verrà riconosciuto questo ambito premio. La “Buona Scuola” stabilisce infatti a priori che il 34% dei docenti non sarà ritenuto “meritevole” e non avrà diritto allo scatto di competenza. Questo giudizio non si baserà, ovviamente, sulla capacità di insegnare, di motivare e coinvolgere la classe ma sulla disponibilità ad aggiornarsi e a svolgere compiti accessori. Eppure, la bravura di un insegnante risiede principalmente nelle sue doti comunicative e nella capacità di trasmettere, con semplicità, conoscenze anche complesse, ma nella “Buona Scuola” queste competenze non saranno valutate. Con il pretesto di premiare il merito, si aggiungono carichi di lavoro non retribuiti e si abolisce di fatto l’unico diritto contrattuale garantito, lo scatto di anzianità. Non è certo questo il modo di incentivare economicamente e psicologicamente i docenti. ella relazione illustrativa al ddl stabilità 2015 si afferma che la scuola costituisce “la leva per lo sviluppo e la crescita del Paese” ma appare evidente che non vi è alcuna reale intenzione di investire risorse economiche aggiuntive per rilanciare e valorizzare il nostro sistema di istruzione che sarà, al contrario, oggetto di ingenti tagli nei prossimi anni.

La scuola ha sempre potuto contare sulla disponibilità dei docenti a svolgere attività aggiuntive oltre le ore canoniche di lezione, spesso a titolo gratuito o con compensi irrisori, per assicurare il buon funzionamento dell’istituto in cui operano; solo alcuni compiti particolarmente gravosi, come il ruolo di vice­preside che richiede un impegno continuativo, consentono di usufruire dell’esonero o semi­esonero dal servizio.

Ora, la legge di stabilità intende abolire questo istituto normativo ed è evidente che senza quei docenti esonerati dall’insegnamento che collaborano con il dirigente scolastico, e che spesso lo sostituiscono in caso di assenza o impedimento, le scuole si troveranno in gravi difficoltà gestionali e organizzative.

Un’altra norma profondamente iniqua è quella che abolisce qualsiasi forma di utilizzazione o comando presso altre amministrazioni per il personale della scuola (con la sola eccezione dei docenti che svolgono compiti connessi con l’attuazione dell’autonomia scolastica o compiti di supervisione del tirocinio per l’abilitazione all’insegnamento; art. 28, co. 6 e 7). Si tratta di una palese ingiustizia, ai limiti dell’incostituzionalità, dato che impedisce di fatto ai soli lavoratori della scuola la mobilità che è invece consentita per tutti gli altri comparti della pubblica amministrazione, magistratura, università, corpo di polizia ed esercito compresi.

D’altronde, questa norma non sembra nemmeno rientrare nell’ottica di un contenimento della spesa pubblica,  dato che il personale comandato o utilizzato è a costo zero per l’amministrazione in cui presta servizio, ed è altresì incongruente con il piano per la “Buona Scuola” che prevede l’assunzione a tempo indeterminato di supplenti che saranno inseriti nell’organico stabile degli istituti proprio per assicurare quella continuità didattica, pretestuosamente addotta per giustificare un provvedimento inutile e vessatorio. A voler essere maliziosi si potrebbe pensare che il reale intento sia quello di liberare posti negli enti pubblici da affidare ad “esperti” con contratti a più zeri, visto che i docenti comandati hanno qualifiche che li collocano in posizioni appetibili.

In un paese in cui lo Stato versa 83 miliardi nelle casse di società partecipate quasi tutte in perdita, le quali continuano a retribuire consulenti e dirigenti con stipendi spesso superiori ai 200mila euro, dove commessi e funzionari di Camera e Senato protestano per il tetto di 240mila imposto ai loro stipendi milionari, dove negli enti pubblici si continua ad assumere a contratto personale per “meriti” politici, appare paradossale che l’unica categoria sulla quale si decida di risparmiare sia proprio quella preposta a formare ed educare le nuove generazioni.

Purtroppo, nella “guerra tra poveri” scatenatasi a causa della crisi, gli insegnanti sono additati come privilegiati che lavorano “solo” 18 ore settimanali. Questa opinione fa comodo alla politica che sa di poter contare sul supporto delle altre categorie quando applica norme sfavorevoli nei confronti dei docenti. Se i sindacati fanno notare che gli stipendi degli insegnanti italiani sono più bassi della media europea, i politici replicano che all’estero sono in servizio 36 ore a settimana. In tempi recenti ci sono state anche proposte concrete di aumentare le ore di insegnamento, per esempio da parte del ministro Profumo che ha dovuto fare poi marcia indietro non perché gli insegnanti si sono ribellati ma perché si è reso conto che una tale riforma è irrealizzabile senza riconsiderare completamente anche l’edilizia scolastica.

In effetti all’estero, anche se le ore di lezione frontale non superano mai le 18, gli insegnanti trascorrono tutta la giornata a scuola perché hanno una propria postazione con computer e stampante, una mensa dove consumare i pasti, armadietti dove riporre libri e dispense, stanze dove riunirsi e ricevere studenti e genitori. Molti docenti italiani preferirebbero poter correggere i compiti e preparare le lezioni a scuola, ma è ovvio che non potrebbero farlo stipati nella sala professori dove mancano persino le sedie per accomodare tutti, con un computer ogni 20 se va bene.

Il più grande difetto della politica italiana è l’incapacità di avere una visione ad ampio spettro e a lungo termine. Governi e partiti propongono riforme che si limitano ad affrontare la situazione contingente e a tamponare le emergenze senza pianificare o prevedere le conseguenze. La “Buona Scuola” non fa eccezione.

All’estero, il concetto: “i futuri cittadini si formano a scuola” è il principio cardine su cui sono imperniati tutti i corsi, i programmi, i testi scolastici e la stessa formazione dei docenti, i quali sono fortemente motivati a progredire professionalmente. Dopo aver maturato una certa anzianità di carriera che oscilla, a seconda del paese, dai 15 ai 25 anni, i docenti di solito ottengono una promozione e passano a dedicarsi a tempo pieno ad attività che da noi sono considerate aggiuntive (cioè da svolgere tra una lezione e l’altra) come il coordinamento delle classi, la gestione dei dipartimenti oppure il monitoraggio dei progetti. E’ difficile trovare in cattedra, all’estero, insegnanti che abbiano superato i 55­60 anni di età, per questo motivo l’età media degli insegnanti italiani è di gran lunga superiore a quella europea, anche se tutti vanno in pensione a 65­67 anni come da noi. La progressione di carriera comporta ovviamente anche un sostanziale aumento di stipendio. Infatti, mentre la retribuzione media di un insegnante italiano appena immesso in ruolo è paragonabile a quella dei suoi colleghi europei, la forbice si allarga considerevolmente con il passare degli anni e diventa molto consistente a fine carriera.

Nella maggior parte dei paesi europei i docenti “senior” possono dedicarsi a tempo pieno ad attività collaterali all’interno della scuola, oppure passare ad altre amministrazioni centrali o periferiche.

Il vantaggio per gli studenti è quello di avere sempre in cattedra insegnanti giovani, motivati e pieni di entusiasmo, il vantaggio per il sistema scolastico è che la retribuzione dei docenti trasferiti presso altre amministrazioni grava unicamente sul bilancio dell’ente accogliente e non su quello del comparto scuola, che potrà quindi reinvestire quei soldi per incentivare e migliorare l’offerta formativa. In ogni caso, quasi tutti i paesi, dopo aver inutilmente tentato di studiare un sistema di valutazione dei docenti, hanno optato per un regime di progressione economica legata prevalentemente all’anzianità. Il profilo professionale dell’insegnante, infatti, è talmente complesso che è praticamente impossibile tracciarlo. Non è sufficiente valutare le sue conoscenze o insegnargli nuove metodologie, le doti che deve possedere sono innumerevoli e persino difficili da descrivere: deve essere comunicativo e cordiale ma al tempo stesso fermo e in grado di mantenere la disciplina, deve essere sensibile ed empatico ma al tempo stesso imparziale e inflessibile, deve esprimere elevate aspettative nei confronti dei suoi studenti ma ponendo obiettivi appropriati per ogni alunno, deve essere coerente e leale per ispirare valori etici, deve coinvolgere, motivare, incentivare.

Il “buon insegnante” insomma è una personalità complessa che deve trasmettere all’allievo passione, entusiasmo e appagamento per ciò che fa. Molti sostengono che l’insegnamento è una vocazione, un’arte per la quale alcuni sono portati e altri no. L’attuale tendenza a voler giudicare l’efficacia della didattica seguendo una logica aziendalistica e la pretesa di voler valutare gli insegnanti secondo parametri “certificabili e misurabili” non fa altro che svilire questa professione, provocando iniquità ed ingiustizie e generando sfiducia e malcontento, sia da parte dei docenti sia da parte dei fruitori.

In Italia, i docenti sono gli unici dipendenti pubblici esclusi dal sistema di progressione di carriera automatico, mentre gli impiegati di tutte le altre amministrazioni possono salire di grado (fino alla pre­dirigenza) e ottenere aumenti retributivi, con il superamento di un semplice colloquio proforma, anche se non sono in possesso della laurea richiesta per l’accesso al ruolo.

La formula più giusta sarebbe mantenere gli scatti di anzianità per tutti i docenti, prevedendo incentivi supplementari per chi è disposto ad impegnarsi in compiti aggiuntivi. Ma per farlo il governo dovrebbe investire nella scuola, proposito sempre proclamato da tutti e mai realizzato.

In questo contesto, le edificanti parole del premier Renzi assumono una valenza puramente demagogica: “dare al Paese una Buona Scuola significa dotarlo di un meccanismo permanente di innovazione, sviluppo, e qualità  della democrazia. Un meccanismo che si alimenta con l’energia di nuove generazioni di cittadini, istruiti e pronti a rifare l’Italia, cambiare l’Europa, affrontare il mondo. Per questo dobbiamo tornare a vivere l’istruzione e la formazione non come un capitolo di spesa della Pubblica Amministrazione, ma come un investimento di tutto il Paese su se stesso. Come la leva più efficace per tornare a crescere”.