Demenza digitale e l'uso improprio delle tecnologie La Tecnica della Scuola 8.4.2014 Pubblichiamo una recensione a cura di Gustavo Micheletti sul libro "Demenza digitale" del neurologo Manfred Spitzer
Sullo schermo c’è aperto un documento di storia, inglese o fisica, che nasconde la pagina Facebook o iTunes. Intanto con le cuffie ascolta un podcast e a volte, per concentrarsi ancora di più, guarda un video su YouTube”. Queste sono solo alcune delle testimonianze riportate da Manfred Spitzer - un neurologo che dirige attualmente la clinica psichiatrica e il Centro delle neuroscienze e l’apprendimento dell’Università di Ulm - nel suo Demenza digitale, (Corbaccio editore) un saggio che spiega come l’uso diffusamente improprio delle nuove tecnologie corra il serio rischio di renderci tutti più stupidi entro pochi anni. La tesi centrale avanzata dall’autore è che l’utilizzo dei media digitali nel campo dell’istruzione abbia “effetti collaterali che esulano dall’abuso diretto” e che tali effetti collaterali non vengano presi abbastanza in considerazione. Quando si afferma che a scuola si può migliorare lo studio grazie all’utilizzo dei media digitali, si tende a dimenticare che non esistono dimostrazioni scientifiche di questa tesi, mentre esistono molti indizi che forniscono buone ragioni per ritenere vero il contrario. Già nel 1997 Todd Oppenheimer aveva cercato di mettere in guardia dalla “follia dei computer” e le sue previsioni si sono almeno in parte rivelate giuste negli anni successivi. In particolare, l’ampia introduzione di internet in ambito scolastico non pare abbia provocato i risultati sperati: un gruppo di ricercatori portoghesi e americani ha esaminato gli effetti del suo utilizzo in novecento scuole portoghesi e il risultato rilevato è stato un peggioramento del rendimento scolastico proporzionale al suo uso. Molte altre ricerche, elencate in dettaglio da Spitzer, hanno confermato questo risultato su scala mondiale. Naturalmente, non si tratta di un dato imprevedibile. La riduzione del tempo che gli adolescenti dedicano alla lettura è direttamente proporzionale a quello che passano davanti ai videogiochi o a chattare, e questo determina a sua volta un peggioramento della qualità della lettura e dell’assimilazione profonda dei suoi contenuti. I media digitali, ben lungi dal rivelarsi strumenti ideali di apprendimento, in quanto sottraggono lavoro mentale autonomo si sono generalmente dimostrati scorciatoie che favoriscono un apprendimento frettoloso, distratto e superficiale. Inoltre, diverse indagini inducono a ritenere che l’ampio utilizzo, anche da parte dei più giovani, dei social network, favorisca una diminuzione dei contatti reali e conduca a “una diminuzione delle dimensioni delle zone cerebrali preposte alle competenze sociali nei bambini e, di conseguenza, a una diminuzione della competenza sociale”. Sia nei bambini che negli adolescenti si può anzi registrare anche l’aumento del senso di solitudine, dell’insonnia e di varie forme di depressione in misura proporzionale al numero di ore trascorse davanti al pc. L’ampia diffusione di videogiochi violenti induce poi a sviluppare una sempre maggiore attitudine ad assumere comportamenti violenti, mentre riduce la capacità di provare compassione o empatia, il che a sua volta rende sempre più problematico lo sviluppo di soddisfacenti e armoniche relazioni sociali e personali, con la conseguenza che molti giovani non riescono ad interagire positivamente con il mondo che sta loro intorno e con i loro stessi coetanei. Ma il quadro inquietante tracciato da Spitzer non si esaurisce qui, perché man mano che si sviluppano comportamenti multitasker, ovvero animati dal gusto di fare molte cose contemporaneamente, diminuisce anche la capacità di autocontrollo e di rielaborazione attiva delle informazioni. L’incremento delle competenze concernenti l’utilizzo dei media a discapito di quelle tradizionali relative alla lettura e alla scrittura comporta una sempre maggiore difficoltà nel conseguire un reale accrescimento delle proprie conoscenze. Senza una solida cultura di base, per esempio, risulterà impossibile trovare su internet le informazioni che si stanno cercando: chi legge poco e poco ha appreso, avrà sempre enormi difficoltà a divenire più colto attraverso l’aumento delle proprie competenze digitali, perché “è necessario avere conoscenze preliminari di un determinato contenuto per poterlo approfondire. Chi non è convinto, può provare a inserire in un motore di ricerca un contenuto di cui non sa assolutamente niente. Si accorgerà ben presto che Google non è in grado di aiutarlo. Vale invece il contrario: più cose so, prima troverò in rete anche i dettagli che mi erano sconosciuti, più individuerò qualcosa di nuovo e interessante e più in fretta completerò le mie ricerche”.
L’autore del saggio si chiede, nella parte finale, come potrebbe
essere la società del futuro se i giovani che oggi passano tante ore
a uccidere mostri alieni sullo schermo di una play station, a
navigare senza meta o a scambiarsi brevi battute sui social network
investissero il loro tempo a leggere e a studiare alcune delle
infinite cose interessanti che varrebbe la pena conoscere e
scoprire, se invece che ai molti intrattenimenti mediatici
dedicassero il loro tempo ad approfondire quanto davvero potrebbe
interessarli e appassionarli per tutta la vita facendo nel contempo
crescere la loro capacità di decifrare il mondo e di comprendere se
stessi e gli altri. L’impressione è che tale ipotetica società
potrebbe risultare un po’ più umana e vivibile, spiritualmente più
ricca e più capace di affrontare razionalmente le proprie emergenze
sia di quella attuale sia di quella che si sta profilando
all’orizzonte grazie alla quantità esorbitante di tempo che si
spende con vari media digitali. |