La scuola torni agli insegnanti, Giorgio Israel, Il Messaggero 25.8.2014
È avventato commentare un progetto di cui sono note solo le linee
generali, come quello che è stato preannunziato dal Messaggero sulla
scuola, e questo non solo per il rispetto che si deve a chi l’ha
formulato, ma anche perché è nei dettagli e nelle modalità di
attuazione che si annidano gli aspetti più significativi e
qualificanti. Tuttavia nell’annuncio vi sono due aspetti di metodo e
di merito che colpiscono positivamente. Il primo: è sacrosanto che
sia il governo, e anzi la persona del presidente del Consiglio, ad
assumersi la responsabilità di formulare un progetto organico che
non sia il frutto della solita tentazione demagogica di farlo
nascere da una sorta di scrittura collettiva. Ben vengano poi
commenti e critiche dei soggetti coinvolti. Il secondo è riassunto
nella dichiarazione: «Tra dieci anni l’Italia non sarà come
l’avranno fatta i funzionari degli uffici studi delle banche o i
politici di Montecitorio. L’Italia sarà come l’avranno fatta le
maestre, i maestri e gli insegnanti». Anche se per controbilanciare il dirigismo di cui sopra. In terzo luogo, il peccato di alcuni pedagogisti ed “esperti della scuola” di voler rifare l’istruzione da cima a fondo nella veste di consiglieri del principe; i quali si sono tuttavia fatti rimpiangere dall’intervento degli ultimi soggetti coinvolti, proprio i funzionari degli uffici studi delle banche e gli “economisti della scuola”, che hanno voluto far credere che il problema dell’istruzione possa essere risolto con modelli econometrici e con l’abuso di test e quiz. Tutto ciò indica la via da seguire per affrontare il tema centrale del merito e della valutazione: restituire questa funzione alla comunità di riferimento, cioè gli insegnanti. Questo non implica escludere dalla valutazione il contributo di studenti e famiglie. Ma la scuola non è un supermercato. La conoscenza non è un prodotto, la sua acquisizione non si valuta secondo la soddisfazione del consumatore, altrimenti la soluzione banale è promuovere tutti ovvero abolire il merito. È proprio la subordinazione a questa concezione sbagliata che ha condotto alle promozioni di massa che, a loro volta, rendono difficile la valutazione di merito degli insegnanti. Se non rimuoviamo il feticcio del «successo formativo garantito» sarà difficile se non impossibile introdurre una qualsiasi forma di valutazione professionale degli insegnanti. Pertanto, è sciocco dedurre dal fatto che l’esame di maturità abbia visto promozioni di massa la conclusione che esso debba essere abolito. L’esame di maturità, come l’esame di terza media (e anche un esame di conclusione della scuola primaria) possono essere migliorati e adeguati, ma hanno mostrato una validità formativa per i singoli e per la scuola come sistema (e questo non solo in Italia). La scuola deve essere aperta a tutti, ma non può essere un puro luogo di socializzazione; la scuola deve incoraggiare lo sforzo e l’impegno degli studenti. L’Italia arriva tardi in tema di valutazione. Tanto più è bene guardare non solo ai punti di partenza dei modelli esteri ma anche alle critiche attuali. Come la pretesa bizzarra di valutare la ricerca scientifica senza leggerla è sempre più screditata, così l’abuso dei test - anche di quelli Ocse-Pisa - è sempre più oggetto di critiche autorevoli. Sarebbe davvero strano, mentre appare evidente la necessità di frenare la quizzomania a livello della valutazione degli studenti fare degli esiti dei test agli studenti uno strumento di valutazione degli insegnanti. Restituire protagonismo agli insegnanti significa, lo ripetiamo, fare della valutazione un processo interno alla categoria, ovvero basato su pratiche ispettive rigorose e lontane da quelle burocratiche di un tempo. Non è certo possibile qui entrare nelle modalità, che sono decisive ma che debbono essere identificate dal principio cardine del merito, e cioè che si crei un confronto che faccia dei migliori un modello per gli altri e trascini verso l’alto la qualità del sistema, esattamente come deve avvenire per gli studenti. Se, invece, si pensa di eliminare il confronto parlare di merito diventa derisorio. Resta da dire qualcosa sul tema più importante: i contenuti. Siamo in fervente attesa di leggere i dettagli del progetto convinti che non ci si illuderà di risolvere i problemi di contenuto con le tecniche didattiche o digitali. Si straparla delle carenze in matematica ma chi creda che esse si risolvano con l’informatica o con i tablet commette un errore marchiano: esse si risolvono insegnando a pensare nella matematica propriamente detta abbattendo le barriere che la separano da altre discipline. Un discorso analogo vale per la fisica, la biologia o altre materie scientifiche. Fu proprio Steve Jobs a ricordare in un’intervista di parecchi anni fa che nessun problema dell’istruzione può essere risolto con mezzi digitali. Inoltre, la scuola italiana ha bisogno come veleno delle guerre di religione tra materie scientifiche e umanistiche e tra licei e istituti tecnici e professionali. Ha, al contrario, un bisogno assoluto della riqualificazione di questi ultimi, ma men che mai di far deperire i licei, magari diffondendo - come taluno fa sconsideratamente - una contrapposizione tra scuola e lavoro e inseguendo l’idea pericolosa di accorciare il liceo a quattro anni e disseccare quello classico. La frase di Matteo Renzi si avvicina all’aforisma del Nobel Albert Szent-Gyorgyi: la società futura sarà come sono le scuole oggi. Ci auguriamo che si tratti di una società avanzata e colta, perché sbaglia chi dissocia professionalità, capacità tecniche, alta tecnologia, dalla cultura in senso ampio e umanistico che esprime lo spirito critico e la capacità innovativa; e tutto ciò richiede non solo ma anche lunghe permanenze nello studio. |