Le riforme della scuola
In attesa dell'annunciata svolta renziana, di Lidia Baratta, Linkiesta 29.8.2014 A settembre si torna sui banchi. E anche il «popolarissimo» governo Renzi, come i suoi predecessori, non mancherà all’appuntamento, sfornando l’ennesima riforma della scuola italiana che dovrebbe risvegliare insegnanti e studenti dal torpore estivo. Doveva già essere il consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto il D-day renziano. Il 19 agosto il premier disse in pompa magna: «il 29 agosto sulla scuola vi stupirò». Salvo poi, dieci giorni dopo, rimangiarsi la promessa e rinviare a settembre, per non mettere troppa carne al fuoco nel primo Cdm dopo le vacanze estive. Quindi per avviare la riforma bisognerà attendere almeno la prossima riunione dell'esecutivo. In attesa del pacchetto Renzi, come sta la scuola italiana? Ecco la nostra fotografia. Sulla scuola Renzi ha puntato sin dai tempi della Leopolda e da una scuola di Treviso ha inaugurato il suo impegno istituzionale. «Dalla scuola riparte un Paese», ha ripetuto poi più volte da presidente del Consiglio. E i numeri di cui si discute in questi giorni sembrano destinati a fare lo stesso effetto dell’abolizione dell’Ici annunciata da Silvio Berlusconi all’ultimo secondo della tribuna elettorale del 2006. Perché parlare di 100mila nuove assunzioni nella palude stagnante della scuola quell’effetto un po’ lo fa. Anche se è solo una goccia nell’oceano degli oltre 600mila precari. Ma Renzi (messa all’angolo la Giannini) parla già di una “riforma rivoluzione” per premiare il merito degli insegnanti ed eliminare il precariato. Come? Partendo dal superamento delle supplenze e incentivando i docenti migliori. La domanda è: sarà davvero la volta buona o solo l’ennesima legge sulla scuola appuntata all’occhiello di un governo? Perché i risultati dei test Pisa (Program for International Student Assessment) sui nostri 15enni, ben sotto la media Ocse, non perdonano: le riforme del passato di certo non sono servite a migliorare la qualità dell’insegnamento e le capacità dei nostri studenti. Come aveva scritto il nostro Link Tank, il problema non sono tanto le elementari e le medie, che sembrano funzionare più che bene nel confronto internazionale. Le lacune si annidano alle superiori, quando la distanza tra gli studenti italiani e quelli stranieri si allunga. Senza dimenticare il peso sociale degli insegnanti, tenuti scarsamente in considerazione rispetto ai colleghi tedeschi, francesi o inglesi. La verità è che in pochi in Italia incoraggerebbero il proprio figlio a intraprendere la carriera di docente. Troppo insicura, poco considerata e scarsamente retribuita. Le riforme, insomma, non hanno mai finito per premiare il merito, la qualità degli insegnanti e di riflesso la qualità degli studenti. Che restano tristemente basse.
La spesa in istruzione
E non è una questione di soldi. A
guardare i dati, la spesa media per studente è in linea con la media
dell’Ocse, la spesa in istruzione sul Pil è di poco inferiore alla
media Ocse (3,4 contro 3,6 per cento, in base ai dati dello studio
“I numeri da cambiare” dell’Associazione TreLLLe)
e il numero di alunni per insegnante è molto più basso di Spagna,
Regno Unito, Francia, Germania e persino gli Stati Uniti. Il
problema della scuola italiana è, come ha più volte detto anche
l’ex ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza,
la «capacità di spesa delle risorse». Dalla riforma Gelmini in poi
(2008-2013), per giunta, complice anche la spending review dello
Stato, la scuola italiana ha perso per strada ben sei miliardi
di euro di fondi tra tagli al personale e ai
materiali didattici. Quello che ci pone ben al di sotto degli altri
Paesi europei è soprattutto la percentuale della spesa in istruzione
in rapporto al totale della spesa pubblica. In questo,
l’ultimo rapporto sul Miur fatto dalla Corte dei Conti
è chiaro: «Nettamente inferiore alla media europea appare invece la
percentuale della spesa per l’istruzione rispetto al complesso della
spesa pubblica che passa dal 9,11 per cento del 2009 all’8,2 per
cento del 2012 della spesa totale rispetto ad una media europea del
10,6 per cento, ponendo l’Italia in penultima posizione tra i 27
Paesi europei».
E i soldi vengono spesi pure male.
Oltre agli scarsi risultati dell’apprendimento dei nostri studenti,
a parlare sono gli edifici delle scuole (qui
alcune delle foto che abbiamo raccolto). Secondo l’undicesimo
rapporto sulla sicurezza nelle scuole di Cittadinanzattiva,
in una scuola su sette ci sono lesioni strutturali evidenti, il 20%
delle aule ha distacchi di intonaco, in quasi un terzo dei bagni
(31%) e in una aula e
palestra su quattro ci
sono muffe, infiltrazioni e
umidità. Il 39% delle
scuole mostra uno stato di manutenzione del tutto inadeguato (lo
scorso anno era il 21%); nell’84% dei casi sono stati richiesti
interventi mantenutivi all’ente interessato, ma nel 21% delle
situazioni si è intervenuti con estremo ritardo e nel 14% dei casi
l’intervento non è mai arrivato. A guardare la storia dell’istruzione italiana, però, le riforme annunciate in pompa magna per migliorare la condizione della scuola (non solo sul lato strutturale) di certo in passato non ci sono mancate. Sulle spalle degli insegnanti sono passate leggi, leggine e riforme intestate a questo o a quel ministro in carica. Emblema delle riforme “vuote” è quella fatta dall’ex rettore dell’Università di Siena Luigi Berlinguer nel 1997, che mirava a eliminare la distinzione tra formazione culturale e formazione professionale prevedendo due soli cicli di istruzione, e modificava l’esame di stato con tre prove scritte e un colloquio orale (com’è oggi). Si annunciò uno stravolgimento del sistema scolastico, ma poi arrivarono un nuovo governo e una nuova riforma che portava il nome dell’allora ministra all’Istruzione Letizia Moratti, la quale con un colpo di coda nel 2003 abrogò la legge quadro di Berlinguer e si fece la sua. La riforma, contestatissima, conteneva l’abolizione dell’esame di licenza elementare, la riduzione del “tempo scuola”, nuovi programmi di storia, geografia e scienza, l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, la dualità tra sistema dei licei e la formazione professionale, e puntava sulle famose tre “i” berlusconiane, inglese, informatica e impresa. Poi arrivarono prima Fioroni, che nel breve interregno Prodi fece in tempo solo a stabilire che il debito formativo doveva essere recuperato entro l’inizio del nuovo anno scolastico, e dopo Mariastella Gelmini. La contestatissima ministra dell’Istruzione del quarto governo Berlusconi tagliò la spesa per l’istruzione riducendo il numero di insegnanti. Un’ora di scuola tornò di nuovo a durare 60 minuti ma vennero ridotte le ore di lezione complessive, ricomparve il maestro unico e per i docenti migliori veniva previsto un premio di produttività. Era il 2008, oggi le modalità per stimolare gli insegnanti sembrano gli stessi.
La giungla dei precari e delle supplenze Ogni governo sulla scuola ha fatto e detto la sua. Cosa ci resta? In primis, gli oltre 620mila precari tra neolaureati, abilitati dalla vecchia Ssis (Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario) e dai Tfa (Tirocinio formativo attivo) in attesa di diventare maestri e prof, divisi tra graduatorie di ogni fascia e tipo. I numeri li ha dati la stessa ministra Giannini durante la presentazione del piano programmatico del suo dicastero: 170mila circa iscritti nelle Gae (Graduatorie a esaurimento), 460mila iscritti in Graduatoria di istituto per supplenze annuali (a cui vanno sottratti i 170mila iscritti nelle Gae), 10mila nuovi abilitati con i Tfa, 70mila con titolo dei Percorsi abilitanti speciali (Pas), 55mila diplomati magistrali.
In questo calderone, circa
140mila sono quelli coinvolti nel sistema delle supplenze prese di
mira, che ogni anno sono necessarie per far funzionare la macchina.
Per arrivare all’organico necessario per l’anno scolastico
2014/2015, il ministero ricorrerà a 27.700 precari. Per le posizioni
rimaste vuote per via di aspettative o distacchi sindacali, vengono
chiamati in servizio circa 42mila insegnanti. Oltre a questi
supplenti più duraturi, c’è anche la giungla delle supplenze brevi
per problemi di salute o altre emergenze. Sotto i dieci giorni,
vengono coperti con i docenti di ruolo a disposizione, poi parte la
chiamata all’esterno. Solo le emergenze, costano al nostro ministero
680 milioni l’anno. E sono questi costi che la riforma Renzi
vorrebbe evitare, stanziando un miliardo e mezzo e assumendo 100mila
precari delle Gae. Che poi, per dirla tutta, oltre a essere costoso,
il sistema delle supplenze funziona pure male. In base a un
sondaggio del sito
Skuola.net, su circa 1.500 studenti tra gli 11 e i 19 anni,
quando il prof non c’è l’80% dei ragazzi non fa lezione, anche
quando un altro docente è in aula. Durante l’ora di buco, uno
studente su tre dice che la classe rimane scoperta senza alcun tipo
di sorveglianza. La situazione non migliora nel caso il professore
manchi per più di 15 giorni: il 43% degli studenti sostiene che per
settimane o mesi non ha avuto né docente né supplente. Solo il 15%
dice che fa lezione in classe con un supplente regolare o con il
professore di un’altra classe.
La precarietà del corpo
insegnanti porta a risultati precari anche nel rendimento dei nostri
studenti. Dai
test Pisa 2012, viene fuori
che i risultati medi in matematica, lettura e scienza sono inferiori
alla media Ocse: l’Italia si colloca tra la 30esima e la 35esima
posizione nell’elenco dei 65 Paesi ed economie che hanno partecipato
alla valutazione. Il
punteggio medio delle competenze matematiche nell’indagine Pisa si
ferma a 485, mentre la media dei Paesi Ocse è di 500. Per non
parlare dell’inglese: nell’Indice
di conoscenza della lingua inglese,
l’Italia si classifica 32esima su 60 Paesi, rientrando nella
categoria dei Paesi con un basso livello di conoscenza
dell’inglese, insieme a Uruguay, Sri Lanka, Russia, Taiwan, China,
Emirati Arabi Uniti, Costa Rica, Brasile, Peru, Messico, Turchia,
Egitto, Iran e (amara consolazione) Francia. Fin qui la valutazione degli studenti. E quella degli insegnanti? Non sarà che i nostri studenti non sono così bravi perché gli insegnanti non lo sono altrettanto? Il punto, però, è che al contrario di Paesi come l’Inghilterra, la Francia o la Finlandia, dove esiste una valutazione esterna o interna (fatta dai dirigenti scolastici) degli insegnanti della scuola pubblica che coinvolge circa il 90% del totale, in Italia sette insegnanti su dieci lavorano in scuole in cui non esiste alcuna forma di valutazione del loro lavoro. Come viene fuori dall’ultimo rapporto Ocse sull’insegnamento e l’apprendimento (Talis 2013), una percentuale molto alta (67,9%) dei nostri insegnanti sostiene però che la valutazione ricevuta abbia migliorato la propria capacità di apprendimento. Emerge inoltre una insoddisfazione rispetto all’avanzamento della propria carriera e un bisogno di formazione professionale soprattutto nelle capacità tecnologiche e informatiche (35%). Questo accade anche perché i nostri prof sono i più vecchi d’Europa: in media hanno 48,9 anni e di 19,8 anni di lavoro alle spalle. Solo il 12,5% pensa che il proprio lavoro sia tenuto in considerazione nella società, a fronte del 30,9% della media Ocse. Per più della metà degli insegnanti italiani intervistati (54,3%), però, la valutazione migliorerebbe la percezione pubblica del proprio ruolo, per 7 su 10 sarebbe sarebbe un modo per aumentare la fiducia in se stessi, e addirittura per 8 su 10 porterebbe a un miglioramento anche delle performance degli studenti.
Neanche in termini di stipendi i nostri prof se la passano bene. Roberto Perotti e Filippo Teoldi hanno messo a confronto le remunerazioni medie degli insegnanti italiani e di quelli inglesi. Gli stipendi dei nostri prof sono più bassi sia in termini assoluti sia in rapporto al Pil pro capite. Un insegnante delle scuole primarie italiane ha uno stipendio tabellare di 21.447 eurolordi l’anno, che salgono a 24.849 sommando le indennità e le spese accessorie. Retribuzione inferire al pil pro capite dello 0,97 per cento. Di contro, un insegnante inglese guadagna 37.400 euro l’anno, pari all’1,27% del pil pro capite. La musica non cambia nel caso di un insegnante delle scuole superiori: stipendio base di 23.471 euro, che sale a 28.547 con le indennità accessorie, pari all’1,12% del pil pro capite. In Inghilterra lo stesso docente guadagna 41.930 euro l’anno, pari all’1,42% del pil pro capite. Ma anche se guardiamo il confronto con altri Paesi dalla Francia alla Germania, la situazione non cambia. E non è un caso che negli indicatori sul peso sociale degli insegnanti (Global Teacher Status Index) l’Italia si piazzi solo al 13esimo posto. Solo il 3% degli intervistati ammette “con certezza” che gli studenti nutrano rispetto verso chi sta dietro la cattedra. I nostri studenti risultano in effetti tra i più irrispettosi d’Europa verso i propri insegnanti. Ma circa il 75% degli intervistati sostiene che i prof dovrebbero essere pagati in base ai risultati degli studenti. Quindi, parlando per l’Italia, non tanto. Sembra un cane che si morde la coda. Riuscirà ora questa nuova annunciatissima riforma della scuola a cambiare volto a una scuola che cade a pezzi (letteralmente)?
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