Meno autonomia con il nuovo Titolo quinto di Gian Carlo Sacchi, Educazione & Scuola 25.8.2014 Calmata la bagarre che ha portato alla prima approvazione della riforma del Senato e dell’ulteriore revisione del Titolo Quinto della Costituzione, occorre vedere nel dettaglio quali siano le acquisizioni reali rispetto ai tanti proclami che ne hanno accompagnato la discussione parlamentare. Chi ha seguito tutto l’iter dal varo della prima riforma costituzionale del 2001, sostenuta da un referendum popolare, e lo ha fatto confidando che fosse realizzato in Italia un vero “sistema” di autonomie, si sarebbe aspettato finalmente un impegno del governo per l’applicazione di quelle norme, mentre si è trovato di fronte ad una nuova revisione, e ciò ha suscitato non poche perplessità. Il cammino è lungo e se si riuscirà ad arrivare in fondo forse ci attende un altro referendum; c’è dunque tempo, nei successivi passaggi parlamentari, per apportare ancora qualche modifica, ma soprattutto perché ci venga spiegato come può la stessa maggioranza politica del 2001 e del 2014 varare due testi molto diversi tra di loro, e sostanzialmente in contrasto, prima di chiamare di nuovo la consultazione popolare. A maggior ragione se quest’ultimo provvedimento è collegato con la riforma del Senato, che diventerà la camera delle autonomie, se queste ultime, come in altri Paesi, avranno poteri reali nel governo del territorio. Non interessa qui riprendere il conflitto sulla natura e la composizione del Senato stesso, quanto collegare i due versanti della riforma, per stabilirne la direzione di marcia, e cioè quella della reale autonomia dei governi locali e delle istituzioni scolastiche, altrimenti il Senato potrebbe essere abolito o mantenuto così com’è a seconda dei punti di vista. Insomma se c’è autonomia ha senso una camera delle autonomie, se non c’è allora il tema del mono o bicameralismo va posto su altri piani, magari anche su quello della riduzione dei costi della politica. Nei lunghi anni di governo di centro destra non si è minimamente posto attenzione al problema se si eccettua la legge sul “federalismo fiscale”, voluta dalla Lega Nord, con il contributo, nei suoi decreti attuativi, del Partito Democratico; possiamo dire che le maggioranze politiche in campo sono altre e cioè quella del centralismo statale e quella dei poteri regionali e territoriali. E’ vero che in questi ultimi anni si è scatenata una vera e propria tangentopoli sulle regioni, una sola è passata indenne fino ad ora dalle attenzioni della magistratura. Fortunatamente i consiglieri regionali non hanno l’immunità e quindi si possono condurre indagini più rapide, perché la corruzione nei parlamentari non è diminuita, ma è più difficile colpire, tanto è vero che molti indagati a livello regionale si sono messi al riparo facendosi eleggere, con il porcellum, alla Camera o al Senato. Se questa è la ragione che spinge le riforme, non c’è dubbio che riscuota una certa popolarità, come anche l’abolizione dei consigli di quartiere, ma bisogna vedere se il risultato è semplicemente uno specchietto per le allodole oppure c’è un effettivo miglioramento nell’efficienza e nella democrazia di questo Paese. Per il settore istruzione sembra che non ci siano grosse novità, ma non si può dirlo fino in fondo, in quanto la legge costituzionale del 2003 non è stata applicata ed anche il contenzioso davanti alla Corte Costituzionale pur riandando in linea di principio a questioni fondamentali per un radicale cambiamento di prospettiva governativa del settore, di fatto ha riguardato aspetti abbastanza marginali. Di questa giurisprudenza tuttavia i politici avrebbero potuto servirsi per dare avvio alla precedente riforma, ma non lo hanno fatto, ed oggi ci troviamo a discutere ancora in linea teorica, mancando a monte una chiara manifestazione di volontà politica e a valle l’esperienza concreta ed una casistica utile non solo sul piano giuridico ma come scambio di esperienze per approfondimenti e sviluppi. Tornando all’aspetto politico la valutazione che se ne trae è che nel centrosinistra sia naufragata l’idea autonomista, che forse era più tipica della sinistra e del nord, dove gli enti locali sono stati anche laboratori per il governo delle autonomie. E’ sorprendente come il “partito dei sindaci” oggi al governo nazionale sia disponibile senza neppure un ripensamento a varare una modifica costituzionale che torni al centralismo. Forse che Bassanini e Berlinguer, sostenitori del decentramento dello stato e dell’autonomia scolastica, forzarono la mano rispetto ad un Paese non maturo per l’autogoverno e ad una burocrazia che in termini di funzionamento della macchina statale sovrasta la politica. Questa riorganizzazione dei poteri e dei livelli di governo non fu mai completamente realizzata, e la “legislazione concorrente” tra stato e regioni, mantenendo inalterate le competenze del primo e rinunciando al coordinamento delle iniziative regionali, ha generato conflitti e sovrapposizioni normative, anche se in tale regime l’ultima parola spettava alle regioni. Nel settore dell’istruzione questa diatriba, come si è detto, si è sentita meno, perché lo Stato non ha regolamentato le sue prerogative (norme generali, principi fondamentali, livelli essenziali delle prestazioni), ma ha continuato a gestire direttamente tutto il servizio, lasciando interventi marginali alle Regioni; ed anche sul fronte dell’autonomia scolastica, che la Costituzione voleva “fare salva”, non c’è stato nessun sostanziale passo avanti. Non si è riusciti nemmeno con una legge sul governo degli istituti. Il nuovo testo al posto della predetta legislazione concorrente, che era già operativa per effetto della revisione costituzionale in tutte le regioni, parla del “regionalismo differenziato”, cioè di poteri decentrati ad alcune di esse, ma con legge nazionale, mentre lo stato riporta sotto le sue competenze esclusive, oltre ai livelli essenziali delle prestazioni, già previsti nell’ordinamento del 2001 e sui quali avrebbe potuto esercitarsi in questi anni, come è stato fatto nella sanità e nel welfare, le disposizioni generali e comuni sull’istruzione e come novità l’ordinamento scolastico e l’istruzione universitaria. Attualmente detto ordinamento ingloba anche le suddette disposizioni generali: in futuro ? Potrebbe trattarsi di un’operazione gattopardesca che lascia alle regioni potestà legislativa solo sulla cornice, la pianificazione del territorio, mentre il quadro, l’ordinamento, rimane saldamente statale. Per l’istruzione universitaria questo vorrebbe dire come minimo aumentare la burocrazia, come è già avvenuto con la riforma Gelmini, con buona pace della competizione che viene sempre invocata. L’autonomia delle scuole è ormai nella logica della loro azione sul territorio, è in sintonia con le sempre più ampie relazioni europee, con il mondo del lavoro; essa richiede però una maggiore flessibilità curricolare e organizzativa, nonché nella gestione del personale. Tornare su un modello unico nazionale significa arretrare anche sul piano dei risultati, rinforzare la logica dei programmi e degli esami, avere meno spazi di manovra per intervenire sul successo formativo, ecc. I dati che continuamente registriamo ci spronano a migliorare le nostre performances e questo non può essere solo un’azione didattica, ma deve poter lasciare aperta la possibilità di interventi sul piano strutturale da parte delle scuole stesse e delle politiche locali. A meno che non si tratti di un ordinamento essenziale, snello, di riferimento comune: indicazioni nazionali, linee guida. Bisogna che lo stato lavori sui risultati attesi, gli standard, da tenere monitorati non tanto con l’ordinamento quanto con la valutazione. Queste sono preoccupazioni più da leggi applicative, ma certe ricomparse a distanza di anni, senza un’esperienza concreta dietro le spalle, destano ancora non poche perplessità. Facciamo un paio di esempi tanto per capirci meglio. Il primo riguarda “l’istruzione e formazione professionale”, espressione ripetuta dal precedente titolo quinto. Sembra un nuovo canale ordinamentale, di esclusiva competenza delle regioni. Da un lato ci sono i centri di formazione accreditati dalle regioni e dall’altra gli istituti professionali di stato. Gli ordinamenti regionali spesso provocano una frammentazione nei risultati anche in termini di qualifiche che mettono in difficoltà la circolazione delle professionalità, nelle diverse parti d’Italia, ma sempre più anche a livello europeo, mentre gli istituti professionali con norme nazionali mal si adattano alle realtà dei territori. Si può andare avanti ancora con la conferenza stato- regioni, nella quale si sanciscono le intese, ma non si sa come vada a finire, o con la camera delle autonomie entrambi i segmenti possono confluire in un unico canale nazionale, più simile al tanto acclamato modello tedesco, che favorisce la comunicazione, anche con la realtà europea, mantenendo però le sue specificità di indirizzo e territorio. Si tratta di conservare l’unità della Repubblica e di tutelare l’interesse nazionale, ma anche favorire la capacità ed il livello di sviluppo presenti nelle varie realtà locali. L’altro esempio riguarda l’apprendimento permanente di cui l’Italia soffre terribilmente nelle statistiche europee. Lo stato con i CPIA pur ammodernati si limita di fatto ad agire nelle competenze formali e nel conseguimento da parte degli adulti di titoli di studio, mentre oggi sappiamo che le competenze non formali, adeguatamente certificate, possono costituire un incremento dei saperi in età adulta, favorendo l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Formale, non formale, informale, sono modalità di crescita delle persone e di superamento dell’analfabetismo di ritorno che possono elevare la qualità formativa di un popolo (ed i nostri tassi europei), anche in riferimento alla coesione ed al progresso sociale. Questo è un altro aspetto che deve collegare le strutture dello stato con altre realtà associative o lavorative nell’ambito di una programmazione nazionale e territoriale, sotto l’egida del nuovo Senato. E’ stato abolito il principio che vedeva una sostanziale parità legislativa tra stato e regioni (legislazione concorrente), con una diversificazione delle materie sulle quali legiferare: norme generali da un lato e pianificazione territoriale e gestione dei servizi dall’altro, mentre qui discutiamo di una ricentralizzazione di tutte le questioni ordinamentali, relegando ai poteri locali azioni amministrative. L’eventuale differenziazione dovrà essere approvata con legge nazionale e non si è ben capito se ad opera del nuovo Senato, o forse no, occorre andare alla Camera. Se nel precedente titolo quinto per cercare una sintesi ci si doveva limitare ad una debole conferenza tato-regioni, ora che si è costituita la struttura nazionale che regolamenta il funzionamento delle autonomie queste ultime vengono indebolite e dunque viene da chiedersi a cosa può servire un Senato di questo tipo: costerà poco, ma non varrà nulla. |