Entri la musica nella nuova scuola

È un’arte che ha influenzato la cultura e la vita delle generazioni. Non va
dimenticata ora che si è aperto il dibattito sulla riforma dei metodi di insegnamento.

di Eugenio Scalfari,  L'Espresso 14.8.2014

Si parla molto della riforma della scuola. Se ne parla in Europa e in tutti i Paesi dell’Occidente e la ragione è molto semplice: i ragazzi dai 16 ai 20 anni, cioè nella fatata stagione dell’adolescenza, non hanno quasi niente a che vedere con le generazioni che li hanno preceduti. Quelli che frequentano la scuola ma solo perché ne sono obbligati dalla legge, non per il desiderio di apprendere, e chi fatica con gli strumenti che possono orientarli ad inserirsi nel lavoro e in generale nella società, considerano logorati dal tempo i metodi ed i programmi di insegnamento, si aspettano, anzi vogliono una scuola diversa da quella esistente. Quale?

Questa risposta non è molto chiara. I diretti interessati, cioè i giovani studenti, hanno idee dissimili l’uno dall’altro e comunque molto vaghe; gli insegnanti sono in qualche modo influenzati dalle rispettive specializzazioni ed il loro parere non è dunque del tutto neutrale. Ci sono naturalmente gli esperti, diciamo quelli che hanno come materia delle loro riflessioni i saperi e le modalità più adatte ad insegnarli ai giovani e comunque a capire quale sia il modo migliore per formare attraverso la scuola una persona responsabile, una coscienza vigile, un cittadino capace di portare avanti le società che stanno attraversando una fase particolarmente agitata.

Il dibattito è intenso e dura già da qualche anno. Ha avuto inizio, come immagine che molti dei nostri lettori ricordano, dall’uso delle lingue morte (parlo ora del dibattito nel nostro Paese che è quello che ho potuto seguire di più). Vanno ancora insegnati il greco e il latino? Insegnati come lingue, conoscendone la grammatica, i tempi verbali, la sintassi, le parole più usate? O questo tipo di insegnamento va abolito riservando la conoscenza di quelle letterature solo alla loro storia, agli autori e alle opere che più le hanno illustrate?

Ma se questa fosse la scelta, che naturalmente dovrebbe essere effettuata su testi tradotti nella nostra lingua, allora perché limitarsi alle letterature greca e latina e non spaziare di più includendovi tutte le principali civiltà che hanno contribuito alla nascita dell’Europa? Contribuito alla storia del Mediterraneo, del Baltico, e dell’Europa di qua e al di là del Volga? E perché non tenere nel conto la storia dell’Arte che tanto ha contribuito e a sua volta è stata influenzata dalla letteratura?

Come si vede il dibattito è esteso e molto affascinante, le tesi si confrontano e si rincorrono. Ma pongono, insieme a molti altri, il problema dell’insegnamento: quale docente e a quale livello del corso di studio è in grado di insegnare discipline così diverse spiegando agli alunni le interdipendenze tra l’una e l’altra e presentandole come sfaccettature di un unico percorso culturale? E poi: si tratta soltanto di storia della letteratura e di storia dell’Arte o ci sono molti aspetti della cultura che non possono essere trascurati ed anzi, probabilmente, sono assai più determinanti per la nascita della storia della cultura? Per esempio le scienze, la geometria, la matematica, l’affermarsi delle istituzioni sociali e politiche, le religioni?

In realtà la vera disciplina, la regina di questo insegnamento, diventa l’antropologia culturale come già accadde in Francia alcuni decenni fa con la nascita della “nouvelle école”. Ma i fautori della nuova scuola, che hanno introdotto un’innovazione importante nello sviluppo della cultura, hanno tuttavia commesso un errore: hanno trascurato, anzi di fatto abolito, il racconto della storia politica, le guerre, i governi, i mutamenti della sovranità dei territori. La storia della cultura e l’antropologia culturale non possono fare a meno di includere la storia politica nel loro racconto. Capisco che la “nouvelle école” ha dovuto combattere proprio contro il monopolio che la storia politica ha esercitato. La storia cioè è stata per molti secoli una disciplina tra le tante e dalla distanza tra di esse avrebbe dovuto nascere quella cultura complessiva che invece è nata molto di rado e solo per giovani particolarmente dotati, e assistiti da insegnati altrettanto preparati a favorire le sintesi dalle quali nasce la cultura generale.

Non ho finora neppure nominato la musica e l’ho fatto volutamente. L’ho riservata per ultima proprio perché la considero tra le prime, anzi la prima dei vari elementi che compongono una cultura. La musica e la danza sono all’origine dei saperi, insieme ai graffiti, cioè alla pittura primitiva. La sua storia ha una influenza essenziale sull’evolversi di quella che abbiamo chiamato antropologia culturale. Lo zufolo è uno strumento mitico; Orfeo è uno dei miti più antichi dell’ Ellade ed è appunto alla sua musica che la sua semi-divinità è affidata. Ma anche Dioniso è impastato con la musica è Apollo che fa dono (provvisorio) della cetra a suo fratello Hermes.

Ma la musica storicamente ha esercitato un ruolo fondamentale specialmente dal quindicesimo secolo ad oggi. Pensate a Scarlatti, a Palestrina, a Vivaldi, a Barth a Haydn a Liszt, a Mozart, a Beethoven, a Schubert, a Chopin, a Wagner, a Gluck, a Rossini, a Verdi. Ma pensate anche agli “spiritual” degli schiavi, al Gregoriano della chiesa ed infine all’età del charleston e dello swing, del jazz, del rock.

La musica ha avuto un ruolo primario sulla cultura e sulla vita delle generazioni e quindi nella storia di tutta la cultura, insieme alla scienza, alla letteratura, alla poesia.

Forse è venuto il momento di trarre dal dibattito che abbiamo qui riassunto qualche decisione capace di rinnovare la scuola, l’insegnamento e l’apprendimento, senza di che tutto resterà limitato ad un dibattito che può interessare ma non esercitare alcuna concreta influenza sulla crescita dei giovani e quindi sul futuro che ci aspetta.