Dibattito sul dossier di Tuttoscuola

Giuseppe Bertagna: tre precondizioni
per rilanciare la scuola

da Tuttoscuola, 10.9.2013

Tutto ciò che è maturo e non si coglie, marcisce. È un proverbio delle mie parti. Ma è pure esperienza comune. Non c’è santo che tenga. Si può fare qualsiasi cosa per impedire la decomposizione: dare acqua alla pianta, togliergliela, deprecare con melopeee più o meno cadenzate il processo degenerativo in corso, perorare interventi rigenerativi e, pure, tecnicamente appropriati, denegare quanto capita e così via. Ma non c’è niente da fare. L’infradicimento e la cancrena, se non si coglie il frutto a tempo debito, sono irreversibili. Ebbene che cos’è che è maturo e che va asportato, oggi, chirurgicamente, dal nostro sistema scolastico per poter risanare e rilanciare l’albero che ce lo ha dato? Anzi che cos’è che andava asportato fin dall’inizio del secolo, senza accusare chi ha tentato di farlo senza successo di «riformismo inconcludente»?

Anzitutto, il suo essere strutturato ancora sul modello ottocentesco, cioè pensato, oggi, 2013, con il mondo che abbiamo, come potesse continuare ad essere un «apparato statale per costruire la Nazione».

In secondo luogo, il suo poggiarsi su un ordinamento culturalmente, tutto sommato, ancora gentiliano, con i licei in serie A, i tecnici in serie B, i professionali statali in serie C, i cfp regionali in serie D e l’apprendistato formativo addirittura in fuori gioco. Quindi, su un’idea di merito piramidale e selettiva che, oggi, è perfino neurologicamente del tutto stravagante.

Il suo essersi, infine, ridotto all’autoreferenzialità sindacal-amministrativa, per di più elefantiaca e centralizzata, quindi del tutto incapace di scambio fisiologico simmetrico con l’esterno, sia esso costituito dalla famiglia o dalla società o dall’impresa.

Non amo le pose gladiatorie e le logoclastie polmonari. Non sono ignivomo. E nemmeno uno sconsiderato. Ma credo che ogni intervento efficace in tema di qualità del sistema di istruzione e di formazione del paese dovrebbe partire dalla presa d’atto dell’ormai strutturale, irrecuperabile anacronismo delle fondamenta su cui si basa.

Non si tratta di negare la funzione storica che ha svolto un sistema scolastico che è giunto alle maturazioni che poteva dare proprio grazie a queste stesse fondamenta.

Si tratta di riconoscere, al contrario, dopo le convulsioni durate decenni, e tanto più dopo la distanza tra le sfide epocali che vediamo e gli esiti formativi che verifichiamo ogni giorno, che è finita l’epoca della razionalizzazione e della ottimizzazione dell’esistente.

Certo che si può andare avanti ancora a lungo così. Conviene, del resto, a molti, nel breve periodo. Anche dal punto di vista economico. Corporativismo essenziale.

Se si guardano i processi tecnologici, sociali, geomondiali e, soprattutto, culturali e morali in corso da tempo con occhi meno miopi, tuttavia, il continuare la strada degli accomodamenti tecnico-amministrativi mi fa sempre più condividere l’ammonimento del mio amato Rousseau: «nulla è più adatto a rendere saggio delle follie che si vedono senza prenderci parte».

Insomma, nel contesto che viviamo, non abbiamo bisogno de I rinoceronti, per dirla con lo Ionesco del 1959. Ma, nel suo linguaggio, di Individui. Individui, spero io, che siano anche «persone» e che si comportino da persone, tra loro e nell’insieme sociale. Con tutte le dirompenti e creative conseguenze del caso.

Ciò di cui non abbiamo certo più alcun bisogno è di forze politico-sindacali che, sebbene con indomita fraseologia rivoluzionaria, in realtà, continuano a difendere e a conservare come il migliore dei mondi possibili lo stato di cose esistito fino a pochi anni fa, dimenticando, ad esempio, che, nel Manifesto, Marx aveva chiamato comunismo solo quel «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».

Apprezzo, quindi, tutte le proposte di razionalizzazione avanzate da Tuttoscuola. Salvo una, in realtà. Quella che introduce un sistema di incentivi e disincentivi per combattere l’abbandono scolastico, tipo non concedere la patente del motorino o togliere il sussidio di disoccupazione o l’ammortizzatore sociale ai genitori dei ragazzi che non vanno a scuola. Sono molto lontano da queste deterrenze giacobine che servono solo a confermare il tradizionale principio statalista secondo il quale devono essere i ragazzi e le famiglie ad adattarsi alla scuola invece del contrario.

Detto questo, però, per non aumentare la schiera dei chierici traditori,  dico senza reticenza che le apprezzo se e solo se fossero provvedimenti adottati mentre si introducono con teutonica coerenza e con cartesiana trasparenza tre interventi strategici che reputo indispensabili. E precisamente:

1) la restituzione dei percorsi di istruzione e formazione alla dinamica della sussidiarietà sociale (autonomia e parità piene delle istituzioni scolastiche, anche nel reclutamento di docenti e dirigenti abilitati dallo Stato; eliminazione del valore legale del titolo di studio; valorizzazione delle competenze  costituzionali degli enti locali; certificazione delle competenze affidata alle parti sociali che le esercitano quotidianamente, nel mercato mondiale);

2) la pari dignità educativa e culturale e la pari durata (tutti col diploma a 18 anni!) dei percorsi formativi fino al livello superiore, senza più le gerarchizzazioni esistenti tra teoria e pratica, cultura generale e professionale, istruzione e formazione, studio e lavoro, scuola e società, scuole e impresa, scuola e apprendistato ecc.;

3) la trasformazione dell’attuale, elefantiaca e centralizzata burocrazia statale in una burocrazia snella e competente, capace, non nelle parole di chilometrici documenti ministeriali, ma nella severità e nell’eloquenza dei fatti, di governare e di controllare i risultati dei processi formativi, senza volerli gestire e far gestire a modo proprio, magari con la copertura del potere sindacale e di qualche eforo più o meno sapiente.

 

* Università di Bergamo