La Grande Malattia/ 3
Oltre il caos dei BES

di Raffaele Iosa, Pavone Risorse 22.9.2013

Proseguo il mio lungo lavoro sulla Grande Malattia in educazione facendo qui  i conti con gli atti del Miur  sui cosiddetti BES, i  PDP, i PAI (profumo di patatine). Per me acronimi che profumano di tassonomia scientista,  alla faccia della complessità moreniana e della liquidità di Baumann. 

Ne parlo in rapporto alle implicanze con la deriva iatrogena  che de-pedagogizza  la pedagogia. Al di là delle buone intenzioni  degli autori,  il tema  delle   differenze umane a me pare in questo caso confuso, con il  rischio di aumentare (e non invece ridurre) la deriva “isolazionista” sui ragazzi “inadeguati” chiamati al soglio dei BES,  a partire dalle modalità operative proposte.

Tra l’altro,  il documento del dicembre 2012 e le altre due note del 2013 hanno creato un  groviglio interpretativo  con un caos di input e contro-input  alternativi. Penso, ad esempio, all’ordine di fare il PAI entro giugno e poi, la  riduzione a generica sperimentazione. Da farsi  con la guida delle Direzioni Regionali. Come altre volte, prima si accentra  (fino all’ukaze anti autonomia sui centri territoriali, che qui non tratterò per buon gusto), si suonano trombe sul grande evento, poi (ai primi guai) si scarica al bricolage di un sistema regionale depauperato di persone, poteri, risorse, che dovrebbe fare non si sa cosa non si sa come. Su tutto aleggerebbe la pigra resistenza dei docenti.

Ma c’è di più. Ho assistito, un po’ divertito, a dotte discussioni su cosa sia davvero BES fino a vere battute goliardiche, su cui Franco De Anna ha scritto cose pregevoli in un recente articolo (1). Ha ragione Dario Ianes a ricordarci come la sigla BES è di origine politica (e non scientifica): indica a livello internazionale (con sigla SEN) ciò che (dappertutto con fatica)  in  occidente si circoscrive come “inadeguato alla normalità e al successo”. Da cui   S (speciale di che?) e B (bisogni: perché non diritti o opportunità?). Sono parole figlie del conservatorismo compassionevole: “..Sangue dal muro non se ne cava! Poveretti: mica li abbandoniamo, rispondiamo ai loro bisogni con l’amore,  ma che non pretendano diritti o peggio divergenze  dalla normalità che solo noi decidiamo quale sia”) Il dibattito scientifico è sul tema dilaniante, mentre le diverse politiche nazionali infilano i ragazzi nelle caselle BES secondo l’ideologia normalizzante del momento.

Il termine BES enfatizza oggi la sanitarizzazione della complessità esistenziale   e  sta rischiando di iatrogenizzare (quasi) tutti, come ci ricorda ancora con ironia De Anna. Termine quindi da usare con grande cautela, per i rischi di classificazione, separazione, ideologismo. E invece ecco sotto Natale la diffusione di una sigla nota solo a noi specialisti delle sfighe, su cui discutiamo da sempre.  Ho letto una magnifica, anche se un po’ professorale, lezione contro il  BES in una nota dell’USR Emilia Romagna (2),  che cita UNESCO e convegni internazionali contrarissimi al “siglismo dei bisogni” in educazione. Dunque dalle mia parti dire BES non andrebbe bene!

C’è anche chi raccoglie firme contro il rischio che l’invenzione dei BES  riduca le certificazioni H e spalmi i sostegni sugli “inadeguati”. Dimenticando che oggi l’isolazione in cui si sta degradando l’integrazione ha nel sostegno totale 1:1 la  massima contraddizione negativa.

Alcuni amici sostengono che, nonostante tutto, l’operazione BES ha permesso la ripresa di un dibattito oltre il solo handicap, e a parlare anche degli altri “inadeguati”  a scuola, e forse in parte è vero. Ma,  dopo molti incontri sui BES, scorgo purtroppo  la  “nausea cognitiva” da parte di molti seri insegnanti che non si capacitano sul fare, e che non meritavano questo caos dopo un decennio nauseante di per sé.  E poi,  queste discussioni bizantine sulla forma! Chi decide che? Come il PDP? E il PAI? Si arriva, perfino (alla faccia dell’autonomia), a presentare come Miur una “modulistica ideale”  per il  PAI (ancora profumo di patatine).Ma fino a qui è mero presente politico, degradato in questo decennio dal più vasto caos della crisi. Più interessante è provare a “leggere sotto” i testi, in una piccola ermeneutica dei significati, per comprendere dove sta il pensiero iatrogeno.

 

1. Tanto tuonò che piovve….la 170

Partiamo dalla Direttiva di dicembre, la madre di tutto. Pare nata da quella “ansia ortopedica e pedagogica” che Giovanni Orsina, in un suo recente saggio sul berlusconismo (3),  imputa alla tradizione politica  delle elites italiane: l’ansia  di “aggiustare il paese” dall’alto con la presunzione di  fideizzare  un popolo altrimenti maleducato e  lavativo, cui seguono sempre fragorosi fallimenti.  Anche qui viene lanciato un verbo nuovo,  come se nulla o quasi fosse stato prima.

Vengo da una provincia piccolina dove quando sono arrivato in esilio nel 2001 c’erano 28 docenti  “distaccati” sparsi nelle scuole di base per seguire ragazzini stranieri, ragazzacci disagiati, famiglie sgangherate. C’erano anche 11 psicopedagogisti. C’era anche una buona dote di ore di compresenza in cui insegnanti curricolari (e non di sostegno!) “andavano dietro” (su questa frase ritornerò alla fine ) a chi restava indietro. Non c’erano i voti e non era ancora esplosa la moda Invalsi del “Dio Misura” che ha aumentato gli inadeguati, oggi un problema perché abbassano la media della scuola. Vengo da una provincia dove, nonostante la tempesta neo-darwiniana, si è  tenuto duro, consapevoli  che davanti c’erano “bambini e bambine interi” non  “sintomi”, titolari non di “bisogni”, ma di semplici “diritti” ad ottenere di più perché avevano, in partenza, di meno.

Come non dire che si stava meglio a quei tempi? Tutto questo patrimonio pedagogico empirico oggi sfuma sullo sfondo anche come memoria. Si ri-parte invece da una nuova parte (ortopedia di Orsina): si riconverte linguaggio e azioni sugli “inadeguati” descritti ora in “sintomi” (perenni o transitori), in sigle di elevata simbolicità separante,  cui  si offre una scheda, un progetto solitario,  si concede  dispense e compense  in una continua contrattazione, dove sfumano la classe, il gruppo, la visione olistica della persona. E’ questa la filosofia, con la sgradevole  amnesia del già fatto, che costringe oggi la scuola ad una discussione bizantina su chi deve stare dentro o fuori la riga del BES. Senza un soldo in più, un posto in più, una formazione in più.

Ma non è ancora questo il nucleo del testo, fin qui siamo alla “retorica ortopedica”. Il cuore  vero (la sostanza prima)  è data  dall’enfasi sulla novità della materialissima “concessione” di allargare a questi ragazzi inadeguati….la  Legge 170 sui DSA. Cioè di ricondurre anche loro ad una medicalizzazione sul dispensativo-compensativo. Tutto qua? Piove il nulla e tutti si bagnano!

Meno male che qualcuno si ricorda come  l’individualizzazione didattica sia anche altro, quindi si “concede” che per i diversi casi di BES si  adottino diverse azioni individualizzate, anche altre da quelle della 170. Ma da qui comunque, poi obbligatoriamente per tutti  fare il PDP e il PAI.!

Questo è il centro materiale del tutto: continuare la strada  separativa iatrogenetica dei DSA con una  “concessione calata dall’alto”, che in realtà invade e sottrae alla scuola poteri in materia di individualizzazione e flessibilità didattica che ha già dal 1 settembre 2000 con il Regolamento dell’Autonomia, non a caso mai citato! Bizzarria di un decennio amnesico in fatto di autonomia e incapacità di sviluppare davvero la libertà professionale dei docenti, considerati in questi anni “ignoranti e lavativi”. Non discuto qui sulle questioni bizantine se una direttiva Miur possa superare una legge.  Parlo piuttosto dell’incompatibilità della  Legge 170 e di questa direttiva  versus il Regolamento autonomia! Questi oggetti giuridici infatti sono  formalmente inutili e  invadenti  perché l’art. 3 sul POF, i 4 e 5 sulla flessibilità didattica prevedono già da 13 anni come “potere responsabile” della scuola la decisione di flessibilizzare il curricolo, la didattica, le metodologie in modo da adattare l’insegnamento ad ogni singolo alunno.  Una lettura svolta con l’ascolto e non con gli occhi, l’uso del computer per scrivere, la calcolatrice, o altre diavolerie che qualcuno considera “concessioni” sono già in natura diritto-dovere dei docenti non perché c’è la legge 170 (che anzi appesantisce la flessibilità) ma perchè dal 1 settembre 2000 la flessibilità didattica  è di titolarità dei docenti. Se questo non accade è perché nel decennio alla scuola si è sottratta  l’autonomia, ridotta dal modello centralista delle leggi scolastiche  di cui la  170 fa parte, e da ministre e ministeriali.

Un Miur dignitoso potrebbe al massimo suggerire, dare indirizzi generali, e forse anche (ma quando mai?) controllare! Però con uno spirito che pensi positivo degli insegnanti, ripartendo dal già fatto.  

Dunque, perché questa “ansia normativa”? Non sarebbe bastato richiamare le scuole alle loro responsabilità autonome per garantire ai  ragazzi “inadeguati” (disabili, DSA o disadattati che siano) percorsi individualizzati e diversi con flessibilità e creatività didattica dal basso? E magari aggiungerci qualche soldino?  Perché non affidare alle scuole  l’organizzazione e perfino le sigle?

Ho girato l’Italia a dire “non più a tutti le stesse cose nello stesso momento e nello stesso modo” e adesso si deve fare  il PAI? Ma via: già il fatto di dirlo in una circolare  lede il diritto-dovere del POF di essere naturalmente inclusivo, e non perché lo chiede Lucrezia Stellacci.  Che, infatti, deve precisare e riprecisare che non è un’”aggiunta al POF” ma un bla bla bla di pedagogese….

Ed è invece proprio la Legge 170 quella che si vuole allargare, la madre iatrogena per me da abrogare   tout court, anche per come  è stata mal gestita.  Spiego ora pacatamente il perché.

Per “dispensativo - compensativo” nella 170 si intendono adattamenti dell’insegnamento  funzionali al successo di apprendimento degli alunni con DSA.  La legge pone un limite invalicabile: solo il disabile ha diritto ad obiettivi  diversi, al DSA va invece garantita  “diversità di metodo” ma non “diversità di obiettivi-contenuti”. Non intendo qui analizzare le diverse teorie interpretative (in eterno conflitto) sui DSA, ma sugli atti figli di una certa scelta scientista calata sul pedagogico.  

In Italia domina  una certa  psicologia cognitivista hard. Questa offre  come modello di intervento un rapporto tra “tecnica” (teknè, senza  sfumature) ed educazione coincidendo la prima con la seconda. Secondo questo approccio una certa azione dispensativa e compensativa è “bene” se è tecnica realizzata secondo alcuni canoni lineari seguiti. Non è chiaro se con esiti riabilitativi, adattativi, alternativi ad una qualche “normalità”. Domina l’individualismo del sintomo, la sua centralità sul tutto, anzi la drammatizzazione se questo non viene riconosciuto e “curato”. Siamo nella piena iatrogenesi della Grande Malattia. Eppure sappiamo  che ogni dislessia è diversa dalle altre, e che ogni bambino è anche altro. Ricordiamo ora, per contrappunto,  che il Regolamento dell’autonomia  prevede naturaliter flessibilità e responsabilità docenti per l’individualizzazione.  Dunque, io rovescio radicalmente il ragionamento: gli insegnanti hanno il diritto-dovere di individualizzare la didattica senza alcuna concessione, e possono usare il dispensativo-compensativo a prescindere se un ragazzo ha o meno la certificazione ASL. Potrebbero già ora, se serve, darlo a tutti. E’ dunque una falsificazione che qualcuno più in alto degli insegnanti  faccia credere che la Legge 170  “conceda”  flessibilità didattica a qualcuno.

Ma perché si è fatta una Legge sui DSA e poi si sono inventati i BES? Perché serviva una legge ed anzi un ukaze per imporre compensa e dispensa? Perché allargare oggi la stessa filosofia ai BES? Qui c’è il cuore velenoso della teoria iatrogena che pervade  i DSA, i BES ma anche altro. Non è difficile, anche se doloroso rispondere: la spinta a produrre ukaze nasce dal fatto che una teoria scientista sull’umano è per sua natura autoritaria, fondandosi su una presunta “oggettività” del suo (scusate il bisticcio) “oggetto”. Deve quindi imporsi come vincolante a prescindere dal pedagogico, dalla creatività educativa, da qualsiasi altra teoria diversa dalla sua. Vera dunque per scienza prima che per legge. E’ questa la dura strada che si percorre su molte altre vie dell’epoca: da homo faber ad homo infirmus (4) cui il potere medicale crea i confini, le protezioni, le prigioni. Si pensi al caso della sperimentazione “Stamina” e al Parlamento incerto. Si ricordi le  persone fuori Montecitorio a declamare diritti per figli morenti, e il potere medico per il sì o il no. Una sfida ogni giorno più dura per la deontologia clinica, e che i furbi e i mercanti delle salute bypassano con facili suggestioni.

Nel nostro caso ha favorito questo modello autoritario clinicizzante una doppia ambiguità:

la leggenda metropolitana che gli insegnanti sono ignoranti. Ma nelle elementari da sempre c’è cura per le difficoltà dei bambini proprio in letto-scrittura e calcolo, e fino agli anni 80 una scuola più lenta, analogica, capace di strutturarsi con una buona gestalt sapeva convivere con le difficoltà e quasi sempre superarle senza  drammi e certificati. Ma con il mito  del precocismo e della quantità (merito, competenze,  Invalsi…) degli ultimi anni, e con il degrado della scuola (classi pollaio, poche maestre)  le “competenze perfette”  sono diventate  asfissianti. Nasce da qui la depressione che chiamo DSI (disturbo specifico di insegnamento) che hanno molte brave maestre costrette loro malgrado a fare le sveltine contenutistiche  piuttosto che una lenta, profonda, azione didattica.

- la leggenda ha favorito l’aggressività di genitori che finalmente hanno un buon motivo per giustificare i figli: colpa della scuola! Sulla mutazione genitoriale che ha rotto l’alleanza tra adulti  la letteratura è vasta, qui merita citarla come co-effetto di un’epoca che non dialoga più.

Non è dunque un caso che  la logica della 170 sia “neocontrattualistica”. Si fa la certificazione, il PDP, il dispensativo/compensativo che mai è misurabile se non con la parapedagogia del dottore  ed è sempre poco rispetto alle attese dei genitori. Un tormentone contrattualistico che  arriva a volte a  conflitti legali,  ma che quasi sempre si insinua con un respiro reciproco di diffidenza, di disistima tra adulti. La pedagogia ridotta a sindacalista e avvocato. La deontologia professionale ridotta a “prestazione”. Questo è forse il danno più grave della 170, ben oltre il desiderio di garantire serenamente diritti a ragazzini che fanno fatica  a leggere, scrivere far di conto, mentre la middle classe ansiosa  dei figli cerca  risarcimento. E’ questa piattaforma avvocaticchia  che verrebbe “concessa”  ai BES, senza una realistica analisi delle contraddizioni della stessa 170. Il che  fa dire a molti seri insegnanti e a molti seri medici e psicologi che non se ne può più di una bagarre all’ultima “compensa” senza un senso del limite, una visione più realistica delle persone, la mancanza di una ricerca del dialogo e dell’empatia reciproca. E’ così vero che per i BES il Ministero si para il retro corpo con frasi buro-formaliste  di questo tipo:

“…È necessario che l’attivazione di un percorso individualizzato per un alunno con BES sia deliberata in Consiglio di classe… dando luogo al PDP, firmato dal Dirigente scolastico (o da un docente da questi specificamente delegato), dai docenti e dalla famiglia. Nel caso in cui sia necessario trattare dati sensibili per finalità istituzionali, si avrà cura di includere nel PDP apposita autorizzazione da parte della famiglia. Ove non sia presente certificazione clinica o diagnosi, il Consiglio di classe motiverà opportunamente, verbalizzandole, le decisioni assunte sulla base di considerazioni pedagogiche e didattiche; ciò al fine di evitare contenzioso. (CM 8 marzo 2013)

Roba da notai, non da pedagogisti. E dunque un terreno minato si prospetta agli insegnanti circa l’individuazione di un BES: più che di pedagogia si dovrà parlare di diplomazia, di tatto, di furbizia. E’ questo l’effetto di un’estremizzazione neo-contrattualistica e di una cultura individualistica che ha perduto il senso delle relazioni adulte, la comunità, la fiducia. Così la questione BES potrebbe materialmente impantanarsi in una confusione che, se avessimo usato gli strumenti miti del Regolamento autonomia e maggior buon senso non avrebbe forse avuto tutto questo trambusto.

Ma è proprio qui il problema: aver fatto diventare la questione DSA caso politico come assioma clinico. Esattamente il percorso ideologico che la iatrogenesi della Grande Malattia  ha usato per invadere la cultura pedagogica, sociale e antropologica dell’occidente negli ultimi 30 anni. Con una suggestione del miracolo terapeutico e del “non è colpa mia” che deresponsabilizza tutti e affascina famiglie  in crisi di senso. E torna anche  il mio motto “meglio un po’ malato che bocciato”. Perché questa è diventata l’applicazione della 170: la legge delle attenuanti. Da parte della famiglia se il bambino fa fatica, e anche da parte dell’insegnante per lo stesso motivo. E’ colpa di una rete neuronica o della duplicazione di un tratto di gene del cromosoma 12, o di chissà altro. La persona non c’è mai. Il sintomo diventa tutto. Anche per i BES questo rischio arriva uguale.

 

2. Divagazioni su BES e dintorni 

Tra le molte cose da dire ancora sulla questione BES, ne spulcio alcune di significative, per approfondire aspetti anche curiosi.

a) La chek list sui primi BES.  La direttiva non richiama solo genericamente i BES,  per alcune “malattie” il testo è impositivo. Proprio per le  malattie che hanno conflitti scientifici e che, non a caso, sembrano scritte nella direttiva dalla mano del clinico.  Parlo di borderliner e ADHD.

Sui borderliner cognitivi si torna al vecchio Q.I. su cui litigammo un’era fa contro Eysenk e il suo “I.Q. inequality” (5). E’ noto che la misura del Q.I. avviene con test simili ai protocolli Invalsi (oh, yes) e sono in continua evoluzione secondo il livello del “mito competitivo” dell’epoca. Nulla di oggettivo, dunque, ma ideologia. Il QI fa da  soglia di un “6 ideale” nella mente degli operatori e sui bordi di una condotta cognitiva detta “normale”. Oggi questa condotta è sempre più circoscritta a performances lontanissime, per esempio, dalle intelligenze multiple di Gardner, ma più ai rècit culturali che si pretende  gli umani esprimano. E oggi questa è  omologante più che ai tempi del vecchio Marcuse di ”Uomo ad una dimensione”. Quindi attenti a questi ragazzi: hanno bisogno di essere “curati con cura” con onestà e reciprocità sui loro potenziali. Altrimenti sono solo ripetizioni.

Sull’ADHD, la questione è di ancora più alto valore ideologico (6). L’ADHD è figlia della psichiatria e delle case farmaceutiche americane, e della corsa ad inventare nuove malattie. Nel 1952 il DSM classificava 106 disturbi a carattere psichico-comportamentale, la quarta edizione (1994) ne descrive 297. Per la quinta edizione in arrivo (2013) si stanno spendendo 25 milioni di dollari. Una ragione ce la dà il vicepresidente USA di PhFARMA. Ken Johnson, quando annuncia che sono in preparazione ben 300 farmaci capaci di far fronte al disagio psichico e comportamentale. Johnson si guarda bene dal rilevare come questi disturbi siano correlati all’individualismo e al salutismo. Il disturbo non viene più collegato alle difficoltà della vita e parte dell’esistenza  intrapersonale, ma sbrigativamente patologizzato con ricerche biocliniche ad alta genericità. Il farmaco realizza un “io minimo” e una vita in una gabbia di vetro al riparo da qualunque situazione stressante (7).  Watter  si chiede se nel corso degli  anni sono aumentati i disturbi, oppure se più vengono studiati più si diffondono. Watters sostiene che il modo in cui si categorizzano i sintomi e si tenta di curarli più si influenzano le malattie stesse. Dunque l’adesione acritica dell’ADHD nei BES è una colonizzazione diagnostica,   meriterebbe una discussione più coraggiosa che infilarli in una nota sui BES  con la sicumera di una “certa origine genetica ancora da precisare” e perfino la stima quantitativa epidemiologica. Che tristezza per i bambini difficili nel comportamento, nelle relazioni, nella comunicazione, ridotti a combinazioni proteiche e nucleiche.

b. Gli stranieri e Marx. Non capisco cosa abbiano a che vedere gli stranieri con i  BES. Se è per la loro incompetenza linguistica sappiamo già come fare. Se si tratta di altro allora va male. Suggerisco a tutti di studiare la ricerca di Matilde Callari Galli ed altri “Giovani in cerca di cittadinanza” (8), svolta a Bologna da poco. Ne sono rimasto toccato e mi sono pulito dai   tanti pregiudizi buonisti che avevo. Più che parlare di BES, la ricerca mi spinge a parlare di questo puro proletariato giovanile urbano senza patria perché tutti di seconda generazione (che non è legata alla nascita ma alla scuola) con nessuna nostalgia del ritorno,  dei loro padri tristi e poveri, invece i ragazzi loro ibridi e in cerca di una cittadinanza. Ho compreso la differenza tra “appartenenza” e “presenza” e la marginalizzazione-alienazione marxianamente prodotta dai rapporti di classe, cui noi diamo tristi istituti professionali, e migliaia di pregiudizi sia buonisti che razzisti. Cito dalla ricerca tre testimonianze che parlano da sole sul ben altro che si dovrebbe fare.  Mi fanno una grande rabbia,  e penso che ci vorrebbe un nuovo Don Milani.

Un ragazzo marocchino: Sì, io sono straniero, è una cosa effettiva. Se mi danno la cittadinanza è una cosa burocratica, io sono sempre uno straniero, se cammino per strada sono sempre un marocchino, non ti credere…anche se fai vedere il passaporto rosso di cittadino italiano sei sempre marocchino…Agli occhi della legge sei diventato un italiano a tutti gli effetti, ma agli occhi della gente che non lo sa, rimani uno straniero”

Una madre senegalese: A volte mi chiedo cosa ho fatto ai miei figli. Li ho portati in Europa per darli una possibilità, una vita differente, e invece stanno qui da marginali. Li ho trascinati tra Senegal Francia e Italia e ogni volta li ho persi un po’, quando guardo mio figlio non riesco a capire dove ha imparato quello che fa, a vivere così come un disperato. Non mi assomiglia più, mio figlio. Quando mi dicono quello che ha combinato io penso “ma questo non è mio figlio”.

Una prof, italiana “.. Molti ragazzi stranieri hanno problemi di scrittura con l’italiano, mentre nella matematica ad esempio i ragazzi indiani mi hanno spiegato dei metodi stranissimi per fare le divisioni. A me non interessa quale metodo usano, l’importante è che mi risolvano il problema”.

c. i disadattati e le competenze. Ho letto con piacere nell’ultimo articolo di De Anna la critica all’immagine “idealtipica” delle competenze della scuola di base. Lui è stato  gentile, io invece rido-piango a vedere dove si è arrivati dopo tante parlare di competenze. E cioè  al modello “Enrico Bottini”, il bravo fighetto del libro “Cuore”. Un idealtipo che non scoreggia, non si incazza mai, tondo senza spigoli, gentile con tutti, senza creatività e divergenza. Un idealtipo inguardabile. Hanno fallito  gli autori delle competenze o è proprio indigeribile il tema?   Ripenso all’elogio di Franti di Umberto Eco e mi chiedo dove stiamo andando.  Dal perbenismo di questa idealtipicità. a cascata rischiamo di circoscrivere  i ragazzi disadattati  in un BES come categoria di “irregolari”, di “innaturali”, quella cosa che ha fatto invece dire a De Anna “siamo tutti BES”.  

Al proposito cito, come esempio, dall’inglese Furedi (9)

“…Rifllettiamo sulla “novità” introdotta nel progetto  della scuola elementare in Inghilterra, di porre attenzione al mondo emotivo del bambino, così da condurlo a “riconoscere, nominare le emozioni ed avere competenze per affrontarle positivamente”. Questo programma, a prima vista accattivante, se esaminato con attenzione è inquietante e colpisce per la sua vaghezza. Gli stessi termini “positivo” e “negativo”, collocati nell’ambito della psicologia dello sviluppo, risultano difficilmente precisabili e mantengono una strutturale ambiguità: a volte i bambini hanno ottime ragioni per affrontare in modo negativo le emozioni. E non dare un nome alle proprie talvolta può essere estremamente opportuno. Gli insegnanti vengono di fatto invitati a oltrepassare i limiti dell’istruzione per insegnare agli allievi cosa devono sentire: la terapeutica insomma è entrata nelle aule scolastiche. 

 

 

3. Contro il paradigma terapeutico, oltre i BES

La mia critica, come è evidente, va agli aspetti contraddittori di una politica che ha anche buone intenzioni,  ma che a mio avviso sta sbagliando, e rischia suo malgrado di iatrogenizzare ancora di più la pedagogia. In buona fede, per carità! Però: se si sbaglia sui “meriti dei migliori” (come la vicenda voti maturità/test università) dispiace, ma se si sbaglia sulle aree deboli della società pretendendo di fare buona inclusione l’errore vale doppio. Ecco perché sono dell’opinione che l’intera materia  dei ragazzi “inadeguati” vada ripensata, partendo da quello che già si fa, affidando alle scuole soldi e libertà, senza paternalismi, sigle  e teoremi che portano a discussioni bizantine.

E considerando soprattutto la resilienza di questi ragazzi, cui non si fa mai affidamento. Smettiamola di metterci davanti a loro, ma andiamoci loro dietro, prendendosi cura con rispetto e attenzione delle loro risorse,  che sono tante e che non compaiono nelle liturgie sui BES (10).

La scuola italiana non ha più una buona integrazione, è piena di contraddizioni e non riesce a garantire livelli decenti di eguali opportunità, la stratificazione sociale aumenta   ed è andata in crisi anche la midlle class. L’educazione per tutti torna ad essere un’emergenza nazionale, non partitica. In questo quadro la discussione sui BES mi pare datata, e marginali le piccole soluzioni proposte per i ragazzi “inadeguati”. Sono convinto che la visione deve essere diversa e più articolata. Non servono solo soldi, ma anche valori e idee. Soprattutto pedagogiche.

Tra i tanti avversari odierni per una buona scuola vedo  la iatrogenesi educativa che sta separando gli umani in sintomi ed utilizza la “cura” non come “aver cura di..” ma come “tecnica terapeutica”, isolando la persona nel suo sintomo. Questo avversario lo chiamo qui “paradigma  terapeutico” (Khun ci offre quadri interdisciplinari), che va ben oltre la scuola. Il “paradigma terapeutico”   cresciuto in occidente dagli anni settanta,  tende a ricondurre la maggior parte dei problemi in­dividuali, sociali, culturali ed economici a cause interpretabili in modo clinico. Di conseguenza, la maniera più appropriata per affrontare questi  problemi consisterebbe soprattutto in un adeguato trattamento terapeutico, da applicare  in tutti gli ambiti e le fasi della vita, fin dall’infanzia. La salute individualistica come “non malattia” è intesa come sinonimo di benessere e felicità. Diventa parola d'ordine di uno strano approccio alla vita, in cui ogni dolore è male, fino a diventare una vera e propria ossessione. Medici e psicologi sono i sacerdoti di questo nuovo culto, chiamato a sostituire i vecchi preti (11).  E’ in questo paradigma  che colloco la pur piccola questione dei BES. Per il paradigma terapeutico  l'individuo è troppo debole e fragile per affrontare le difficoltà della vita, da cui ne esce più o meno traumatizzato: da qui la nascita di sindromi varie, e di una miriade di terapie. Il paradigma diventa  il ritornello continuo per la trattazione della maggior parte dei pro­blemi, non soltanto in sede clinica, ma anche giuridica e penale. E crea una sorta di inevitabile “attenuante” di ogni condotta. A ben cercare, in  un femminicidio uno scaltro avvocato saprebbe trovare il “trauma originario” e una sindrome DSF: disturbo specifico di femmine. Anche in politica succede così:  Hillary Clinton ha parlato, riferendosi al caso Lewinsky, di “danni psichici” (BES?) subiti da Bill durante l’infanzia: “Era molto piccolo, aveva appena quattro anni, ed è stato talmente segnato dai maltrattamenti subiti che non riesce neanche a parlarne” (12) Come dire alle attenuanti non c’è mai fine. Come per la nipote di Mubarak.

Di fronte al dilagare di questi disturbi, medici e psicologi suggeriscono  terapia. E’ iatrogenesi.  Questa cultura non è causa ma effetto di numerose grandi questioni sociali, economiche e culturali, che hanno prodotto la “crisi” dei sistemi di comunità, la dissoluzione del tessuto sociale, lo smarrimento dei valori, la crisi nella fiducia sul futuro. Da qui individualismo e ricerca terapeutica  del benessere a ogni costo.

Il paradigma terapeutico infatti pone attenzione esclusiva ai bisogni dell'individuo, il  centro di tutto, e disprezza le istituzioni comunitarie, tra cui la scuola,  considerate per antonomasia nemiche del benessere individuale.  Questa visione “malata” si nota anche dalla facilità con cui vengono diagnosticate nuove forme di malattie. Potremmo dire, citando il vangelo: “Chi è senza disturbi scagli la prima pietra”. Tutti infatti, secondo il paradigma terapeutico (tranne medici e i terapisti) sono più o meno malati e bisognosi di cure e supporto.   Riprendiamo ancora da Furedi:

“Negli ultimi vent'anni  sempre più bambini in età scolare vengono classificati come disabili all'apprendimento. Ma patologizzare un basso rendimento scolastico ha spesso l'effetto negativo di indurre i genitori e gli insegnanti ad "abbassare le aspet­tative, con il risultato di compromettere ulteriormente la motivazione del bambino". Ma  i ge­nitori possono ottenere un trattamento speciale per i figli in virtù della loro disabilità. Il comune di New York spende un quinto del budget stanziato per l'istruzione - oltre un miliardo di dollari all'anno - in interventi speciali. In Inghilterra i bambini inclusi nella categoria delle "esigenze speciali" sono aumentati da 153.228 nel 1991 a 232.995 nel 1997»18.

Tutto questo influenza il modo di pensare e immaginare il proprio stato di salute. Se questo modello dovesse imporsi, è da attendersi un ulteriore incremento di comportamenti e stili di personalità «malati»: «La malattia, se viene usata come chiave per l'interpretazione dell'esistenza, non solo indica come ci si deve sentire e come si devono vivere i problemi, ma costituisce anche un invito all'infermità [...]. Un'inchiesta commissionata dal governo ha rilevato che fra il 1985 e il 1996 il numero di inglesi che si considerava disabile era cresciuto del 40%. Secondo questa indagine, nel gruppo di età compreso tra i 16 e i 19 anni l'aumento era addirittura sbalorditivo, pari al 155%! Gli autori dell'indagine concludono che la differenza fra i dati del 1985 e quelli del 1996 "è troppo grande per poter essere spiegata da un reale aumento della disabilità", ma non sono in grado di spiegare perché sempre più persone sembrino entusiaste di adottare l'etichetta di disabile [...]. Oggi la cultura, con l'esagerazione del ruolo di vittima, con le sue minori aspettative in materia di competenza e di responsabilità individuale e con la tendenza crescente ad affidarsi ali' intervento terapeutico, porta a "sminuire il sé, con la conseguenza di accentuarne la fragilità e la vulnerabilità"

 

C’è dunque qualcosa di “malato” e perverso nel paradigma terapeutico, la medesima che Ivan Illich ha descritto in Nemesi medica.  Naturalmente quando mi ammalo prendo le medicine. Ma non ho dubbi che la iatrogenesi del mondo sta ingessando l’antropologia umana verso idee del sé e della vita disumani,  verso un mito plastificato della salute come “eterna non malattia”.

Convivere con il nostro io intero è invece la vita. Dolore, sofferenza,  difficoltà sono  vita, quella che va e che non ha bisogno di cure ma di avere qualcuno che si prenda cura, che ci venga dietro.

Per questo anche nella pur piccola storia dei BES in Italia, mi auguro venga uno sguardo più alto e dialettico su tematiche di assoluta delicatezza politica, pedagogica,  scientifica e filosofica.

E che la pedagogia riprenda voce e senso, in una diversa visione antropologica della “normalità”, che anzi consideri l’”eterogeneità” degli umani attuali una ricchezza da governare in modo comunitario e non isolazionista, senza separazioni terapeutiche che nascondono discriminazioni. Una pedagogia  che riprenda a pensare alla “persona” non con quella retorica astratta che spesso si offre agli insegnanti, ma la dimensione sociale della persona come “soggetto ecologico” (13) incrocio di relazioni significanti. Significanti, non sindromi né meccaniche, ma sempre dinamiche e reciproche. Il futuro della pedagogia sta  nel riprendersi il suo umanesimo anche radicale, capace di combattere gli idola tribus di una società che ha perso il senso dell’essere ma ha molte macchine e tecniche dove poi non sa dove andare.

 

 

(1) Franco De Anna, vedi in www.scuolaoggimagazine.org

(2) USR Emilia Romagna, vedi in www.istruzioneer.it

(3) Govanni Orsina “Il berlusconismo nella storia d’Italia” Marsilio 2013

(4) Giovanni Cucci, “La cultura terapeutica nelle società occidentali” da La Civiltà Cattolica quaderno 3907 aprile 2013. a don Cucci devo ulteriori e numerosi spunti che senza vergogna ho saccheggiato dal suo straordinario saggio su ciò che io chiamo “paradigma terapeutico”.

(5) Hans Eysenk “IQ,  l’ineguaglianza umana” 1973, diversi editori

(6) E. Watter “Pazzi come noi” Bruno Mondadori 2010

(7) E. Watter  “Pazzi come noi….” cit.

(8) M. Callari Galli et altri “Stranieri in casa” Guaraldi 2009

(9) F. Furedi “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” Feltrinelli 2005. Devo a Furedi gli assi principali della mia ricerca critica, e anche da lui ho pescato a piene mani.

(10) Boris Cyrulnik, Elena Malaguti “Costruire la resilienza, La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi” Erickson 2008

(11) P. Rieff  “The triumph of the therapeutic” ISI Books 2006

(12) E.S. Cohen “in Sickness and in Healt?” Wall strette Journal, 4 august 1999

(13) Gregory Bateson “Verso un’ecologia della mente”  Adelphi 1977