Adesso la vera sfida è accettare i controlli
di Giorgio Israel,
Il Messaggero
24.9.2013
La necessità di un’azione profonda e durevole sull’istruzione non è
favorita dal contesto instabile della politica. Ma l’esigenza resta.
Alla scuola dovrebbero essere dati gli strumenti per divenire
protagonista, e non oggetto, di un’azione che ne inverta il declino.
Il primo obbiettivo dovrebbe essere una grande indagine conoscitiva,
mediante un questionario con cui le scuole illustrino, in prima
persona e in modo non burocratico, la condizione degli edifici e
delle strutture, dell’organico, la densità delle classi, la presenza
di studenti immigrati e di studenti diagnosticati con disturbi di
apprendimento, la propria valutazione dei risultati conseguiti sul
piano didattico.
A tale indagine dovrebbe accompagnarsi l’inizio di un processo di
autovalutazione che si sviluppi in modo progressivo negli anni. È
chiaro che una valutazione deve riferirsi a obbiettivi prefissati.
Crediamo poco alle mitologie aziendaliste dei “benchmark”
quantitativi. Diane Ravitch, già consigliere del presidente Clinton
e autrice della riforma basata su test e “accountability” ha scritto
un libro di radicale autocritica in cui sostiene che il ricorso
estensivo ai test sta distruggendo l’istruzione negli Usa. Secondo
noi, Ravitch ha indicato perfettamente in che cosa consista il
successo educativo e quindi l’obbiettivo da perseguire. Esso è dato
dalla definizione di persona ben istruita: «Una persona bene
istruita ha una mente ben fornita, formata dal leggere e dal pensare
la storia, la scienza, la letteratura, le arti e la politica. Una
persona ben istruita ha appreso come spiegare le idee e come
ascoltare rispettosamente gli altri». Sono indicazioni quasi
rivoluzionarie in un contesto in cui troppi predicano che i
contenuti e le discipline non contano nulla, che leggere non è
importante, ancor meno sapersi spiegare e non si fa nulla per
educare all’ascolto, anzi si incentiva la chiacchiera presuntuosa.
Occorre inoltre che la scuola sia un luogo in cui si lavora in modo
disteso e sereno, che non è sinonimo di un clima “ludico”, che può
ben essere improduttivo e isterico.
Le scuole debbono impegnarsi a farsi valutare. Invece di insistere
con progetti confusi e sperimentazioni di scarso successo, occorre
seguire l’unica via sensata: un sistema di ispezioni incrociate da
parte di commissioni composte da insegnanti esterni e ispettori. In
attesa che questo sistema venga definito in dettaglio, le scuole
potrebbero promuovere un processo virtuoso sottoponendosi a forme di
giudizio tra pari. Ad esempio – sul modello di istituzioni estere –
si potrebbe introdurre la prassi di sottoporre al giudizio di
colleghi di altre scuole una scelta a campione di testi e
valutazioni di compiti scritti. Questi giudizi andrebbero discussi
nell’ambito di una commissione di valutazione d’istituto ponendoli a
confronto con quelli dei docenti interni. Ciò determinerà forme di
confronto, anche dialettico, che saranno un sicuro fattore di
crescita. Un maestro che propone a raffica calcoli ripetitivi o un
professore di letteratura che propone schede di lettura
standardizzate avranno modo di riflettere, di difendere o rivedere
le proprie scelte.
Quanto all’Invalsi è bene che si limiti alla valutazione complessiva
del sistema senza entrare direttamente in campo. La prova Invalsi di
terza media basata sull’idea assurda di interferire sulla
valutazione e poi valutarla, va cancellata. Per riqualificare la
scuola italiana occorre responsabilizzarne i protagonisti e non
deresponsabilizzarli riducendoli a esecutori di precetti
standardizzati. Una forte parsimonia nel ricorso ai test può evitare
la piaga dell’insegnamento volto al superamento dei test (“teaching
to the test”) che ovviamente fa emergere gli insegnanti peggiori,
quelli che anziché fare il lavoro di classe si limitano a
trasmettere ricette confezionate altrove.