La vera valutazione non è una serie di test

Dispiacerà alle vestali dell’oggettività e della standardizzazione. Ma è un bene riconoscerne l’impossibilità in tempo, evitando ulteriori sprechi, di risorse, di intelligenza, di credibilità.

di Ernesto Paolozzi, la Repubblica di Napoli 6.10.2013

“ La conoscenza all’indice: la burocratizzazione dell’ università e della scuola tra dirigismo e (s)valutazione del sapere.” E’ il titolo di un dibattito che si terrà all’Istituto italiano per gli studi filosofici lunedì alle 17. Un convegno da non perdere, al quale interverranno: Bartolo Costanzo, Gennaro Lubrano di Diego, Ernesto Mostardi, Gianpaolo Paladino, Antonello Petrillo, Valeria Pinto.

Nei vent’anni di desertificazione delle intelligenze nei quali si è dibattuto quasi esclusivamente dell’onestà e della disonestà di Berlusconi in una sorta di nevrosi collettiva, l’opinione pubblica non si è accorta che nel frattempo la cultura, classica e critica, subiva un attacco concentrico e micidiale. Non penso soltanto alla battutaccia, qualunquista e opportunista, pronunciata da un ex ministro: “con la cultura non si mangia”. Troppo volgare la battuta, troppo facili le critiche e le controbattute. Penso ad un fenomeno molto più vasto e profondo, subdolo e, malauguratamente, trasversale agli schieramenti politici.

Mi riferisco al sistema valutativo dell’istruzione, della cultura. Mi riferisco alla valutazione di docenti e alunni messo in atto da tutti i governi sulla scia di idee pedagogiche sperimentate con scarso successo in paesi diversi dal nostro, paesi nei quali è in atto un radicale ripensamento, sia sul piano epistemologico che su quello pedagogico, di tali metodiche.

Negli Stati Uniti proprio l’autrice della riforma basata sui test e la rendicontazione, Diane Ravitch, allora consigliere di Bill Clinton, ha denunciato da tempo (“The Death and Life of the Great American School System: How Testing and Choice Are Undermining Education”) gli effetti devastanti che la pratica della valutazione standardizzata sta producendo nel sistema scolastico americano, riducendo di fatto l’insegnamento ad un addestramento al test (teaching to the test) che restringe la gamma delle esperienze didattiche e soffoca la creatività, lo spirito critico e la vitalità delle nuove generazioni.

È notizia di questi giorni la rivolta di intellettuali, scrittori ed insegnanti inglesi contro la politica del ministro dell’istruzione, che sta sottoponendo gli alunni ad un vero e proprio stress da test che finisce con l’alimentare in loro un crescente senso di fallimento e con lo svilire le pratiche didattiche.

Nella presentazione del convegno napoletano redatta da Bartolo Costanzo per il gruppo Energie Nuove si legge: “Spesso ci si inchina proni davanti al totem di una concezione ipertrofica del controllo e della regolazione pubblica equivocandone il falso oggettivismo e la millantata equità sociale, senza comprendere che quelli che si stanno snodando sotto i nostri occhi, sono sistemi, oltre che inefficaci e farraginosi, autoritari e coercitivi, ed in molti casi si qualificano come residui stanchi di un aziendalismo di facciata, già da qualche tempo in crisi nello stesso mondo delle grandi organizzazioni economiche e produttive.”

Il moloch valutativo e la paranoia normalizzatrice che rischiano di coprire il mondo della cultura e della formazione, nel cuore delle università e della scuola pubblica, costituiscono l’ emblema di questa ondata emergente che travolge i principii della libertà, dell’individualità, della creatività perché poggia su malfermi, equivocati, fraintesi fondamenti epistemologici che un paese dalla grande ed alta tradizione filosofica non dovrebbe avere incertezze nel maneggiare.

Quando tutti gli alunni avranno imparato a rispondere in maniera univoca, (“esatta”!) alla stessa domanda non avremo un paese di alunni preparati, ma un paese di pupazzi lobotomizzati, senza cervello e originalità, un paese dal pensiero inerte, morto. E non potremo nemmeno illuderci di poter contare su un corpo docente preparato e capace, giacché il proprio dell’insegnamento è promuovere la curiosità, sollevare il dubbio, valorizzare il pensiero divergente senza il quale non è possibile alcun progresso.

È quasi imbarazzante, tanto è banale, dover far notare che qualsiasi professore universitario è portato, comprensibilmente, a favorire e sponsorizzare la pubblicazione, fra le tante possibili, delle ricerche che confortano e corroborano le proprie convinzioni e le teorie in cui crede. Se questo diventa il criterio premiante è naturale pensare che la storia della ricerca italiana è già tutta scritta: nulla di nuovo potrà venir fuori. Come si fa a non capirlo?

Misurare e valutare non è lo stesso. Si misura l’altezza ma non la statura. Valutare implica esprimere un giudizio. E nessun giudizio può mai essere oggettivo, scevro da responsabilità. Se non altro perché i criteri stessi sono frutto di una scelta, dunque di un atto più o meno discrezionale.

Dispiacerà alle vestali dell’oggettività e della standardizzazione. Ma è un bene riconoscerne l’impossibilità in tempo, evitando ulteriori sprechi, di risorse, di intelligenza, di credibilità.