Vivalascuola

Perché la campanella suona alle 8?

di Giorgio Morale, La poesia e lo spirito 21.10.2013

Abbiamo letto increduli una domanda inserita nel test di ammissione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia di quest’anno. E’ proprio vero che certe verità si insinuano in un testo senza che gli autori lo vogliano, e il testo dice più di quanto sia nell’intenzione dei suoi autori. Questa domanda costituisce un esempio davvero prezioso per capire quale sia la valutazione della scuola e degli insegnanti che circola in certi ambienti. Ci sarebbe da chiedersi: chi ha scritto questi “test“? Ed è stato anche pagato per farlo?

 

Perché la campanella suona alle 8?
di Giovanna Lo Presti

Dal test di ingresso alla facoltà di Medicina e Chirurgia, anno 2013: questo è il primo quesito per la sezione di Cultura generale e Ragionamento logico (la lettera maiuscola iniziale di “Cultura” e “ragionamento logico” le usa il Ministero, a sottolineare la notoria importanza nel nostro Paese, dell’una e dell’altra cosa). Leggano il quesito gli insegnanti – e imparino.

1. Studi hanno dimostrato che negli adolescenti l’orologio biologico funziona diversamente da quello degli adulti, ovvero i ragazzi tendono a voler andare a dormire più tardi e a svegliarsi più tardi. Di conseguenza, ciò diventa un problema per loro durante l’anno scolastico, in quanto hanno bisogno di alzarsi presto dato che l’orario scolastico è stabilito per agevolare la vita degli adulti. La funzione dellascuola è di permettere agli studenti di migliorare il loro livello culturale. Per ottenere ciò, bisognerebbe spostare in avanti l’orario scolastico. Agli insegnanti non farebbe piacere questo cambiamento, ma la scuola esiste principalmente per il vantaggio degli studenti, non degli insegnanti.
 

Quale delle seguenti affermazioni esprime il messaggio principale del brano precedente?

A) Bisognerebbe spostare in avanti l’orario scolastico
B) La funzione della scuola è quella di permettere agli studenti di migliorare il loro livello culturale
C) La scuola esiste principalmente per il vantaggio degli studenti, non degli insegnanti
D) L’orario scolastico è stabilito per agevolare la vita degli adulti
E) Agli insegnanti non farebbe piacere un cambiamento degli orari scolastici (vedi
qui)

Commento:
tenuto conto che la risposta esatta è alla lettera A, si facciano, come insegnanti, le dovute riflessioni su un incipit di questo genere in un test ministeriale: si rifletta, per esempio, sulla comodità di svegliarsi prima dell’alba, come fanno tanti insegnanti pendolari, per raggiungere la propria sede di lavoro entro le otto del mattino; si consideri l’agio offerto dai nostri edifici scolastici, nei quali è già faticoso riuscire a mangiare un panino nell’intervallo e li si immagini popolati ad ora di pranzo da centinaia di studenti.

Se si sposta in avanti l’orario scolastico, ad un certo punto l’ora di pranzo arriverà inesorabile e tremenda. Tutti gli insegnanti hanno esperienza dello studente che sbocconcella furtivamente il supplemento di merenda verso mezzogiorno, nascondendosi a metà sotto il banco e che, interpellato, risponde accorato: “Ho fame!”. Anche questa è questione di “orologio biologico“.

Si pensi poi all’insopportabile flatterie nei confronti di studenti che hanno appena concluso le scuole superiori: si suggerisce loro di essere stati angariati da un mondo a misura di adulti e, in particolare, a misura di insegnanti. Insegnanti feroci e insensibili al grido della natura, veri e propri “insegnanti bastonatori”, come li definiva Adorno in un suo bel saggio sul tabù dell’insegnante, in cui spiegava che la repulsione che si ha nei confronti dell’insegnante è legata anche a quel ricordo atavico: l’insegnante, anche adesso che non usa più nessuna bacchetta, è pur sempre una sorta di adulto sleale che se la prende con creature minori per età e per esperienza. L’insegnante è insomma un adulto insensibile che fa i comodi suoi e se ne frega dei suoi studenti.

Cari studenti, suggerisce il test, la scuola superiore l’avete finita e adesso, noi estensori del test, vi diciamo che avevate ragione quando, alle sette del mattino, imprecavate per il fatto di dovervi tirar su dal letto: gli adolescenti hanno bisogno di DORMIRE AL MATTINO – lo affermano STUDI (ma quali saranno, questi studi?).

Chi, come me, ha passato un po’ del suo tempo a convincere i propri studenti che è meglio andare a dormire un po’ più presto se non si vuole sonnecchiare sui banchi al mattino, è improvvisamente messo k.o. dal primo dei test di Cultura e Ragionamento Logico.

Era il gennaio del 1976 e Michel Foucault inaugurava il suo corso al Collège de France. Negli anni precedenti si era trovato ad affrontare un problema: l’eccesso di affluenza di pubblico alle sue lezioni. L’aula a sua disposizione non bastava a contenere se non una piccola parte degli uditori; molti di questi arrivavano con grande anticipo per potersi assicurare un posto. L’eccesso di pubblico impediva ogni contatto tra il relatore ed i presenti. Foucault trova questa soluzione al problema:

Ho adottato allora il metodo selvaggio consistente nel collocare il corso alle nove e mezzo del mattino, ritenendo, come qualcuno mi diceva proprio ieri, che gli studenti non sappiano più alzarsi così presto. Voi direte che si tratta comunque di un criterio di selezione non molto giusto dal momento che discrimina tra quelli che si alzano presto e quelli che si alzano tardi. Ma se non si fosse trattato di questo criterio avrei dovuto sceglierne un altro. […] Scusatemi dunque se vi ho fatto alzare presto”.

Chi insegna davvero chiede scusa ai propri studenti: chiede scusa per averli sottratti alla libertà del gioco, chiede scusa per aver loro imposto tempi di studio che non tengono conto delle loro esigenze, chiede scusa per il molto che ogni studente dovrebbe avere e per il poco che, invece, oggettivamente, si riesce a dare, chiede scusa anche per i tanti cattivi maestri che, spesso da un pulpito ministeriale, li ingannano blaterando di insegnamenti “personalizzati” e percorsi di “eccellenza”: prospettando insomma, una scuola da Paese dei Balocchi che alla fine manterrà come nella favola una sola promessa: li trasformerà in asini.

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MATERIALI

Sarà che gli italiani non sanno preparare i test?
di Francesco Targhetta

Subito, dopo i primi giorni di quiz, si capisce che qualcosa sta andando storto. Nei forum vengono segnalate domande sbagliate, ambiguità, scorrettezze nella somministrazione dei test, quesiti uguali presenti in quiz diversi, domande copiate dalle vecchie prove per la Ssis, domande su argomenti che non rientrano nei programmi scolastici, domande con più risposte corrette, definizioni copincollate da Wikipedia, in una brodaglia di nozionismo spiccio da far accapponare la pelle.

Solo stando alla A051: il governo che ha eliminato la geografia dalle scuole superiori (ora nel biennio del liceo si insegna “geostoria”, con le stesse ore settimanali che spettavano fino a due anni fa alla sola storia) chiede ai candidati i confini del Mali (confina col Niger o con la Nigeria?); Qualcosa era successo di Buzzati diventa Qualcosa era accaduto; si confondono tra loro monologo interiore e flusso di coscienza; si offre una definizione scorretta di “variante”.

Luciano Canfora, dalle pagine del Corriere della Sera, a proposito dei commissari che hanno preparato i quiz parla di “onnipotenti analfabeti. Al ministero non si chiedeva un’allegra indulgenza o domande ammiccanti per volemose-bene collettivi, ma una severità ragionata e stringente. Il mix di arida erudizione à la Chi vuol essere milionario ed errori marchiani, invece, stride e fa rabbia. Si pretende che si conosca Amafinio (il nuovo Carneade anni zero: a ciascuna epoca il suo), ma poi si ricopiano male i titoli delle opere.

Gli italiani non sanno preparare i test, si commenta, ricordando altri disastrosi concorsi a quiz della storia recente. Allora perché continuare a voler essere dilettanteschi a tutti i costi? I risultati, intanto, confermano l’andazzo negativo. Fanno notizia i quiz di francese (11% di ammessi) e quelli di filosofia e psicologia (addirittura 3%), ma non va meglio nelle altre classi di concorso. Spesso il numero di ammessi allo scritto è minore rispetto al numero chiuso previsto per la partenza dei corsi. Per il ministero è un guaio: come fare cassa se gli studenti sono così pochi? Come arginare la legittima collera dei candidati? Come proseguire il macello? (Gli Asini n. 11, agosto/settembre 2012)

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Sarà colpa della scuola a quiz?
di Giorgio Israel

Se vi sono carenze sul piano linguistico e matematico occorre andare a vedere come e cosa s’insegna. Davvero qualcuno può farci credere che una carenza linguistica e matematica si risolva facendo uno stage in un’azienda di piastrelle? Chi può negare l’utilità di sviluppare gli istituti tecnico-professionali, dopo che sono stati massacrati da riforme demagogiche, ma perché mai questo dovrebbe accompagnarsi allo strangolamento dei licei? Un paese che non voglia suicidarsi non deve forse far avanzare tutto il fronte dell’istruzione? “Literacy” e “numeracy” miglioreranno scaricando tutto il problema sui tecnico-professionali e sugli stage?

Non è serio pensarlo, e non è serio parlare a casaccio di investimenti, come se questi problemi si potessero risolvere con pioggerelle di quattrini su discutibili sperimentazioni didattiche o marchingegni gestionali. Chi voglia esaminare la situazione in modo serio non ha bisogno di perdere tempo per rendersi conto della situazione.

Basta aprire le antologie di letteratura in uso nella scuola, ridotte a brani tratti da fonti di infimo livello, spezzettati in formato sms e alternati con quesiti a crocette.

Basta analizzare come viene insegnata la matematica, ridotta a un ammasso di regolette, algoritmi, “leggi” che vengono moltiplicate in misura tale da disgustare la persona più ben disposta. Del resto veniamo da anni in cui cattivi maestri hanno predicato che correggere l’ortografia era un pregiudizio passatista e che la matematica non doveva essere considerata come una disciplina concettuale ma come una “scienza procedurale“.

Le ciliegie sulla torta le sta mettendo la pressione a studiare per superare le prove Invalsi che fanno dilagare l’insegnamento in funzione dei test. Nella vita quotidiana della scuola il dialogo disteso tra insegnante e allievi è sempre più rimpiazzato da un percorso meccanico sminuzzato in continue “verifiche” in cui prevale una visione burocratica e formale.

Se si vuole affrontare la questione seriamente occorre andare a vedere il problema dov’è. Qualsiasi persona che abbia un’idea minimamente fondata di cosa sia la matematica non può stupirsi di nulla dopo aver letto le ultime Indicazioni nazionali per il primo ciclo, che peggiorano le già mediocrissime precedenti.

Il male sta quindi in quello che s’insegna e nel modo con cui s’insegna, e di questo portano la responsabilità primaria coloro che controllano il sistema scolastico, incluso ora l’Invalsi con i suoi discutibili test e modelli statistici.

In anni passati si parlò delle responsabilità di taluni pedagogisti “di stato“. Viene quasi da rimpiangere quei tempi di fronte alla tendenza odierna a buttarla sull’economicistico e il manageriale, mettendosi nelle mani dei fabbricanti di test fuori controllo e di quell’ambigua categoria detta degli “economisti della scuola” che, a differenza dei pedagogisti, propinano ricette senza aver mai messo piede in una scuola e ignorando i contenuti dell’insegnamento.

Se vogliamo giovani che sappiamo leggere, scrivere e far di conto, come possiamo pensare di istruirli se non ponendoci il problema dal punto di vista dei contenuti? (Il Mattino, 10 ottobre 2013)

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Sarà per questo che gli italiani sono ignoranti?
di Salvo Intravaia

Cittadini italiani in fondo alla classifica sui saperi essenziali per orientarsi nella società del terzo millennio. E in Italia, si ritorna a parlare di analfabetismo funzionale. Non importa, in altre parole, se gli italiani sanno tecnicamente leggere, scrivere e far di conto. Ma l’uso che sono in grado di fare delle informazioni che possono acquisire anche attraverso le tecnologie digitali.

Nell’ultima classifica stilata dall’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), e diffusi oggi dall’Isfol, sulle competenze principali degli adulti il nostro Paese figura all’ultimo posto. Ci piazziamo in fondo alla classica – ultimi tra 24 paesi – per competenze in lettura e al penultimo posto sia per competenze in matematica sia per capacità di risolvere problemi in ambienti ricchi di tecnologia, come quelli delle società moderne.

Oltre un quarto degli italiani, il 28%, si piazzano a livello più basso, o addirittura al di sotto di tale livello, per competenze in Lettura. Percentuale che scende al 15% nei paesi Ocse e al 12% in Norvegia. Quasi un terzo della popolazione che leggendo un libro o qualsiasi altro testo scritto riesce ad interpretare soltanto informazioni semplici. Stesso discorso quando occorre confrontarsi con dati, tabelle e grafici. Gli italiani che si piazzano ai livelli più bassi – al primo livello o sotto il livello più basso – sono addirittura 32%. In Spagna che ci contende il gradino più basso sono il 31 per cento abbondante. La Finlandia si piazza al secondo posto col 13 per cento e il Giappone è in testa con appena l’8 per cento di adulti con scarse competenze matematiche.

La clamorosa bocciatura emersa oggi dal rapporto Ocse-Isfol – commenta Marcello Pacifico, presidente Anief – conferma quello che il sindacato sostiene da tempo: occorre prima di tutto agire con urgenza per rendere obbligatoria la frequenza della scuola sino alla fine delle superiori. Poi è indispensabile restituire ai nostri allievi quel 10 per cento di tempo scuola sottratto nell’ultimo con le riforme Gelmini e infine – continua il sindacalista – invertire il trend dei cosiddetti Neet, quei 2 milioni e mezzo di giovani che vivono le loro giornate senza studiare né lavorare“. (la Repubblica, 8 ottobre 2013)

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Sarà per questo che i salari dei docenti italiani sono tra i più bassi d’Europa?

E’ quanto si evince dai dati Eurydice, che si riferiscono all’anno scolastico 2011-2012, un maestro in Italia guadagna al massimo 32.924 euro, di media 26.359. In Gran Bretagna circa il 60% in più. Un professore delle scuole medie guadagna all’anno da 24.131 euro a 36.157 (in media, 28.257). Un insegnante di liceo da 24.141 a 37.799 (la media è sotto i trentamila).

Secondo il rapporto Education at a glance, lo stipendio di un docente italiano a fine carriera è di 4.000 dollari in meno rispetto alla media Ocse.

Siamo indietro anche nell’aumento in termini reali della retribuzione, grazie al salario reale che è sceso dell’1% negli ultimi sette anni, mentre in tutti gli altri Paesi d’Europa la retribuzione nella scuola ha fatto passi in avanti sostanziali (soprattutto nell’Est, dove il livello di partenza era molto più basso), fino a un paio d’anni fa.

Con la crisi economica, i tagli all’istruzione si sono fatti sentire nella maggioranza degli Stati europei e sono sedici i Paesi dell’Unione che hanno ridotto o congelato gli stipendi degli insegnanti, dall’Irlanda alla Grecia, dalla Spagna alla Slovenia al Portogallo.

In Europa, lo stipendio massimo degli insegnanti con maggiore anzianità può arrivare al doppio dello stipendio di partenza. Ma ci vogliono dai 15 ai 25 anni per arrivare alla massima retribuzione, e questo, secondo Bruxelles, disincentiva i giovani a scegliere l’insegnamento.

In Italia, se si raffronta la retribuzione degli insegnanti con gli altri lavoratori laureati, i professori arrivano a guadagnare a fine carriera il 40% in meno. (vedi qui)

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Sarà per questo che in Italia gli insegnanti sono poco considerati, anche se si pensa che incidano molto nella vita degli studenti?
di Giovanni Scancarello

Per gli italiani, i loro insegnanti valgono poco. I docenti si piazzano in coda nella classifica mondiale della stima sociale che i cittadini hanno verso la professione. E questo, nonostante in Europa i prof italiani risultino secondi nella capacità di influenzare in positivo la vita degli studenti. È quanto emerge dal primo studio mondiale comparativo sulla considerazione sociale degli insegnanti, pubblicato dalla Fondazione inglese Varkey Gems, dal titolo Varkey Gems 2013 Global Teacher Status Index.

La condizione degli insegnanti italiani è definita dagli studiosi a dir poco infelice: su 21 Paesi, l’Italia si piazza al diciottesimo posto.

Prima in classifica la Cina, ultima Israele. Per esemplificare, se in Cina gli insegnanti vengono considerati alla stregua dei medici, in Italia vengono assimilati agli assistenti sociali. Con buona pace degli assistenti sociali, per gli italiani, va detto, gli insegnanti contano poco, soprattutto perché guadagnano poco. Insomma, in Italia resiste ancora il miserrimo mito del maestro di Vigevano, anche se i dati della ricerca riguardano anche i prof delle superiori.

In Italia le persone che pensano che gli studenti non abbiano rispetto per gli insegnanti (45%) sono più numerose di quelle che pensano il contrario (20%). Va detto però che i dati rilevati per l’Italia sono molto simili a quelli dei vicini europei più evoluti. Va detto anche che in Europa gli insegnanti italiani sono quelli che pesano di più nella formazione complessiva delle persone, rispetto alle scelte che compieranno in futuro per la propria formazione, per il proprio impegno civile e professionale.

E da questo punto di vista l’Italia sarà pure un Paese di maestri poveri, ma anche un popolo di buoni maestri: siamo infatti secondi in Europa con, un punteggio di 7.07 nell’indice di influenza positiva nella vita delle persone. Prima di noi solo la Finlandia che ci precede solo di un centesimo con 7.08, ma dietro stacchiamo tutti: in Francia siamo a 6.16, Spagna a 6.87, Inghilterra a 6.43, Svizzera a 6.50, Portogallo a 6.62, Olanda 6.57, Grecia a 6.08, Repubblica Ceca a 5.97 e Germania addirittura a 5.87.

Siamo anche tra i Paesi i cui genitori incoraggiano meno i figli a diventare insegnanti. Alla richiesta avanzata ai genitori se spingerebbero i figli a diventare docenti in Italia lo farebbe solo il 28%, contro il 49,50% della Cina e il 45,94% della Corea del Sud. Dato quest’ultimo che fa pensare visto che sono proprio questi i Paesi che si piazzano sistematicamente in testa alle classifiche delle competenze in matematica, scienze e lettura dell’Ocse Pisa.

Ma sono comunque proprio gli studiosi a dichiarare che un nesso causale tra il livello di retribuzione degli insegnanti e i risultati conseguiti dagli studenti ai test dell’Ocse Pisa esiste. (Italia Oggi, 8 ottobre 2013)

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Sarà l’effetto di una politica di tagli all’istruzione?

Cosa intendiamo con “dieci anni di austerità per l’istruzione”?

Analizziamo il rapporto Education at a glance, alla luce di queste riflessioni:

  • l’Italia è l’unico paese che non ha aumentato la spesa pubblica in istruzione, mentre i paesi dell’Ocse hanno aumentato in media la spesa del 62%. A questo ci riferiamo quando parliamo di austerità per l’istruzione in Italia, che affonda le sue radici prima della crisi.

  • la spesa pubblica nel FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario delle università) ha subito un forte calo, soprattutto durante gli anni della legge 133 che gravò pesantemente sul finanziamento dell’università, che di fatto scatenò la forte protesta del movimento dell’Onda. Questo calo non è mai stato recuperato, ed infatti l’andamento della spesa in FFO continua ad essere decrescente.

  • l’andamento della copertura delle borse di studio subisce una forte riduzione nel 2010 quando, proprio durante il secondo movimento studentesco, ci fu un taglio dell’89,54% delle borse di studio, ripianato solo in parte nel corso degli anni, con un consistente aumento degli idonei non beneficiari (circa 57mila quest’anno)

  • la crisi è un’opportunità? Analizzando la variazione della spesa per istruzione è possibile riscontrare che in tutti paesi dal 2008-2010 una riduzione della spesa pubblica in istruzione, a causa della recessione, ma se guardiamo la situazione dei PIGS vediamo che in rapporto al Pil, Spagna e Portogallo in quegli anni hanno investito comunque di più dell’Italia. (continua qui)

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Sarà perché in Italia si sta distruggendo la scuola pubblica?
di Giuseppe Caliceti

Oggi la nostra istruzione obbligatoria da fiore all’occhiello è finita a fondo classifica.

Recita l’art. 34 che

«la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso».

E’ un principio strettamente legato all’art. 3, specie quando afferma che

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Ora la notizia è questa: da anni in Italia la scuola di cui parla la nostra Costituzione non esiste più. Si potrebbero fare tanti esempi per confermare questa tesi. Ne faccio tre.

1) La gratuità. Sono sempre di più i genitori che pitturano le aule delle scuole. All’inizio mi faceva piacere, adesso mi mettono tristezza. Perché l’eccezione è diventata regola. Una cosa è la collaborazione dei genitori all’interno di un progetto educativo, un’altra dover cronicamente supplire alle mancanze di uno Stato. Una scuola primaria come quella italiana – che fino al 2008 era, per qualità, la prima in Europa e la quinta al mondo – non è stata considerata dai politici motivo di orgoglio, ma d’imbarazzo. Ed è stata progressivamente smantellata, trasfigurata, violentata, mentre si sono sempre più incentivate le scuole private. E tuttavia anche i genitori degli studenti delle scuole pubbliche ormai pagano tutto: corsi pomeridiani, attività sportive, giornalini d’istituto, recite teatrali, gite, viaggi d’istruzione, corsi di lingua straniera, carta igienica, materiale di cancelleria, toner, carta per le fotocopie, detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici. Per ogni studente la cifra media sborsata può essere stimata intorno ai 100 euro l’anno. Totale: un miliardo di euro. Più altri tre o quattro miliardi circa che i genitori raccolgono alle feste di fine anno scolastico con lotterie, tombole, ristorazione e altro: i cosiddetti fondi neri della scuola di cui nessuno deve sapere e nessuno parla. Senza la voce di bilancio “contributo delle famiglie” e il lavoro volontario dei genitori degli studenti, la scuola pubblica, in Italia, da tempo non esisterebbe più.

2) Laicità. Parlare della laicità della scuola in Italia fa un po’ ridere, perciò parlerò della meritocrazia. Anche a scuola. Oggi dichiararsi contro il merito sembra quasi un’eresia. Specie in Italia, il paese delle raccomandazioni. Per insegnare religione cattolica nella scuola pubblica – dove a pagare i docenti è lo Stato – oggi è infatti decisivo non solo il parere del vescovo, ma anche quello del parroco. Non basta più il corso che organizzano le diocesi per abilitare i docenti all’insegnamento della religione cattolica. E’ richiesta anche una certificazione da parte del parroco di “buona condotta morale“. Una sorta di patente di buon cattolico. Una raccomandazione. Tanti italiani sono a favore del merito e della meritocrazia perché leggono in queste parole – sbagliando per ignoranza – il contrario di parole come favoritismo e clientelismo. In realtà merito e meritocrazia sono le idee più semplici e primitive per confluire, anche da chi proviene dalla cosiddetta sinistra, verso politiche aristocratiche, antidemocratiche, di destra. Orientate cioè verso individualismi spesso privi di senso di responsabilità e di solidarietà. La meritocrazia è puro veleno antidemocratico. Il contrario di merito e meritocrazia non sono favoritismo o le parole – merito, meritocrazia – sono oggi utilizzate per giustificare non solo dubbie differenze, ma anche palesi ingiustizie? Per esempio, tra chi ha un diritto e chi non lo ha?

3) L’inclusività. C’è una legge. Prevede che se in classe c’è uno studente disabile non si possano avere più di 20 alunni. Ma se la famiglia non la conosce e non minaccia il dirigente scolastico di rivolgersi ad avvocati, è disattesa. Per giudicare l’efficienza del sistema scolastico ci si affida alle crocette dei famigerati Test Invalsi, da cui gli studenti disabili sono esclusi. Per paura che rovinino la media nazionale, si finge che non esistano.

E dire che prima del 2008 eravamo studiati in tutto il mondo per quello che facevano a scuola con questi ragazzi. Eravamo non solo un esempio di civiltà, ma di contenimento economico dei costi: perché è provato che investire nella loro inclusione scolastica è un vantaggio anche economico. Sono circa 204.000 gli alunni e gli studenti disabili nella scuola italiana, il 4% del totale degli studenti. Più della metà, 81 mila, frequentano la scuola primaria, altri 63.000 studiano nelle scuole medie. Uno su cinque (il 19,8%) ha un handicap grave e ha bisogno di essere aiutato nel mangiare o per spostarsi e andare in bagno. Il 7,8% non riesce a fare nessuna di queste tre cose. Alunni che richiedono un’assistenza costante. E la scuola, sfigurata dai tagli al bilancio e al personale, non riesce più a darla. Con il taglio della spesa pubblica si è ridotto il numero delle ore di sostegno e dalle 22 settimanali previste se si arriva a 11 è già tanto. Quando non c’è il docente di sostegno, spesso il bambino è lasciato in solitudine nella classe. (il manifesto, 12 ottobre 2013)

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Sarà colpa dei politici che abbiamo?
di Tito Boeri

Il problema di fondo alla base di questi ritardi è legato al fatto che i nostri tassi di scolarità rimangono ancora molto bassi in confronto agli standard internazionali. Tre quarti dei nostri connazionali fra i 55 e i 65 non ha completato la scuola secondaria superiore contro una media del 30 per cento negli altri paesi Ocse. La distanza dagli altri paesi avanzati nei tassi di scolarità è molto forte anche tra chi è tra i 25 e 34 anni: attorno al 30 per cento non ha un diploma di scuola secondaria contro meno del 10 per cento nella media Ocse.

Colmare questo divario nei livelli di scolarizzazione dovrebbe essere il compito di qualsiasi governo con un minimo di lungimiranza. Noi invece abbiamo abbassato di ben due punti percentuali (dal 10 all’8 per cento) la spesa per istruzione durante questa interminabile crisi, partendo da livelli di spesa che erano già inferiori a quelli di molti paesi avanzati.

Spesso l’incompetenza fa vivere l’istruzione come una minaccia alle proprie posizioni di potere. E’ lo stesso motivo per cui si garantisce una cattedra a vita ai professori universitari: non si vuole che si oppongano alle assunzioni di ricercatori più bravi per tema di perdere il posto. Ma francamente non ci sentiremmo di proporre di dare uno scranno di durata illimitata ai nostri parlamentari.

Quell’istituto, il senatore a vita, purtroppo esiste già e andrebbe solo abolito. Meglio punire col voto i politici che, ignorando i problemi della scuola e della formazione, si disinteressano del nostro futuro. (la Repubblica, 8 ottobre 2013)

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(Vivalascuola è curata da Nives Camisa, Giorgio Morale, Roberto Plevano)

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2013/10/21/vivalascuola-151/