La relazione di Valerio Vagnoli Valerio Vagnoli, dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, 5.10.2013 In attesa che si avveri la mitica età dell’oro, a cui, sotto diverse specie, molti si sono riferiti in questi decenni, converrebbe che governanti e responsabili delle strutture portanti della nostra società si abituassero a guardare la realtà e a interpretarla per quello che essa è, secondo il noto monito di Machiavelli. Invece, dalla fine degli anni sessanta in poi, in molti settori tra cui la scuola, si è affermata sempre di più la tendenza a sognare. Piuttosto che leggere e interpretare la realtà per renderla progressivamente funzionale a creare condizioni di vita migliori, gran parte della nostra classe dirigente, soprattutto di sinistra, sembra aver trasferito la propria utopistica e adolescenziale formazione di base nella politica, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi. Per quanto concerne in particolare la politica scolastica, il fallimento si può dire quasi completo, avendo tutti i governi degli ultimi decenni piegato la scuola al fine principale di evitare le contrapposizioni con i giovani e con le loro famiglie desiderose di accedere finalmente agli indirizzi di studio un tempo riservati alle classi sociali privilegiate. Mentre la cosiddetta società civile e progressista lanciava anatemi contro la globalizzazione, nello stesso tempo si consumava un’inesorabile damnatio memoriae nei confronti del lavoro manuale, di qualunque tipo, fosse pure quello artigianale e artistico a cui tanto deve la cultura e l’economia italiana . Allo stesso modo, ripeto, le famiglie entravano finalmente attraverso i loro figli nelle aule dei licei, calpestate un tempo quasi esclusivamente dai rampolli della borghesia che allora sembrava irraggiungibile e inamovibile. E per appagarle fino in fondo di questa magra conquista, e anche per liberarle, come è giusto fare nei confronti di una clientela, da possibili fastidi, non si è esitato a facilitare in maniera scandalosa i percorsi scolastici di ogni ordine e grado, colpevolizzando i docenti, soprattutto quelli più rigorosi, e smantellando così un sistema nazionale in grado di autocontrollarsi e di mantenere standard condivisi in tutte le aree del Paese. Così le stesse forze culturali e politiche che inveivano contro la società consumistica ed edonistica, contrabbandavano come progressiste scelte di politica scolastica che miravano, come abbiamo accennato, a fare della scuola un mondo ove tutto sarebbe stato facile da consumare. E l’idea che la cultura liceale, quella in grado di formare esseri pensanti, critici e liberi, si dovesse almeno in parte estendere anche agli altri indirizzi, fece sì che nei primi anni novanta si snaturassero totalmente, appunto licealizzandoli, i tecnici e i professionali, cancellando pertanto in modo quasi definitivo la loro identità. In certi istituti professionali, per esempio, la cattedra d’italiano e storia nelle prime tre classi poteva arrivare anche a 9 ore. Questo può essere piaciuto a qualche docente liceale o universitario mancato, ma non ha evitato che molti allievi degli alberghieri ne uscissero, per esempio, senza saper scrivere correttamente un ordine sulla comanda da inoltrare in cucina. Che i docenti siano talvolta poco propensi a fare i conti con la realtà effettuale dei propri allievi, soprattutto nei tecnici e nei professionali è, purtroppo, vero, come è probabilmente vero che questo pessimo comportamento didattico è stato alimentato dalla omologazione degli indirizzi di studio avvenuta, appunto, a partire dai primi anni novanta e contrabbandata da moli come una grande conquista.
Il campo
semantico di parole legate al senso di sogno e di illusione ben si
addice al mondo degli insegnanti di questi decenni, che raramente ha
rivendicato la necessità di salvaguardare il valore formativo della
formazione professionale; mondo che è il miglior paradigma di quel
ceto piccolo borghese che identificava il futuro di questo nostro
Paese innanzitutto nella volontà di cancellare prepotentemente il
passato, piuttosto che portarcelo dietro con tutto quello che anche
di nobile esso conteneva e che per fortuna in parte ancora contiene.
Infatti, se mi guardo alle spalle e se rifletto su quel poco che ho
fino ad ora culturalmente assimilato, posso facilmente discernere
come la nostra fortuna sia legata anche al lavoro manuale, alla
fatica secolare che ha portato milioni di italiani, pur dovendo
convivere spesso con drammatiche condizioni di povertà, a esprimere
anche attraverso il lavoro alti livelli di genialità e di
creatività. Solo una cultura miserabilmente ripiegata sul compiacimento di se stessa poteva, e ha potuto pensare, che l’esperienza pratica, il lavoro, appunto, la libertà di sceglierlo e di impararlo secondo la propria inclinazione e passione potesse rappresentare una condizione di minorità. Pertanto, di fronte alla “rivoluzionaria e progressista” convinzione che le attività manuali respingessero l’uomo verso chissà quale selvatica condizione, quei pochi che nel passato hanno invece rivendicato l’alto valore formativo ed educativo della formazione professionale, auspicandola magari fin dal primo anno delle superiori, hanno dovuto subire a volte, piuttosto che sereni confronti con chi la pensava diversamente, forme di aggressione ideologica e rifiuto pregiudiziale del dialogo. A nulla è valso, per anni e anni, fare riferimento a quanto accadeva in altri paesi o in regioni come il Trentino, dove il grande sviluppo della formazione professionale ha fatto ridurre il tasso di bocciature e di evasione scolastica sotto la soglia del 10% e dove peraltro hanno addirittura abolito gli istituti professionali. E a nulla è valso, per molto tempo, mettere sull’avviso gli addetti ai lavori della nostra politica scolastica, che non avremmo dovuto lasciare ad una eventuale crisi economica, che poi è purtroppo davvero comparsa, l’ingrato compito di ridare valore al lavoro e alla formazione professionale, perché niente è più mortificante e diseducativo che subire il futuro senza avere la soddisfazione di conquistarselo e di prepararselo come meglio si crede. Sceglierlo a 14 anni, questo nostro futuro, ci è stato molte volte detto, è ingiusto perché a quell’età non si è consapevoli in quanto ancora troppo giovani. Rispondere a queste motivazioni affermando che in altri paesi europei è il sistema scolastico che obbliga i ragazzi, secondo le loro inclinazioni e i loro risultati scolastici, a intraprendere ben prima dei 14 anni percorsi di formazione professionale è tempo perso. Chi ha certezze direi quasi religiose rispetto alla convinzione che, costi quel che costi, tutti i ragazzi hanno il diritto di fare le stesse cose, non è quasi mai disponibile, come ho già detto, a mettersi in discussione. E a nulla serviva obiettare che, anche iscrivendosi ai licei, i nostri ragazzi finiscono col fare delle scelte ancor più definitive, in quanto rischiano di ipotecarsi il futuro con inutili anni di università. Ma si sa, per certi sacerdoti della pedagogia scegliere a 14 anni i licei è ben più democratico e dignitoso che scegliere a quell’età un percorso di formazione professionale!
Quando
l’ideologia prevale rispetto all’analisi dei fatti, tanto per
richiamarci a Machiavelli, si può arrivare ad ignorare il danno
profondo che si fa ai ragazzi aprendo loro la strada alla formazione
professionale solo a 16 anni e sempre dopo che questi hanno
ripetutamente fallito il percorso dell’istruzione. Alla fine,
inoltre, si finisce col trasmettere loero la consapevolezza che la
formazione professionale è un percorso per falliti e di conseguenza
si continua ad alimentare la distorta mentalità che approdare o
scegliere un lavoro manuale è una strada riservata ai perdenti. Naturalmente una qualifica triennale di tale struttura non è in grado di garantire una preparazione adeguata a quei ragazzi (pochissimi in realtà e solitamente quelli che per talento personale hanno desiderio di cimentarsi rapidamente col lavoro) che escono definitivamente dalla scuola alla fine della terza. Infatti, la quasi totalità degli studenti dei professionali continua, dopo la qualifica, il percorso dell’istruzione (con percentuali, in quarta, di abbandoni e bocciature assai prossime a quelle che si verificano in prima), anche per rinviare l’incontro col mondo del lavoro, perché quest’ultimo è talmente dequalificato nell’immaginario dei nostri tempi e paradossalmente così poco valorizzato anche all’interno degli istituti professionali, da suscitare nella gran parte degli stessi studenti una scarsa attrattiva. Di fronte ad un quadro del genere risulta quasi beffarda l’analisi assai articolata e approfondita da parte della Comunità europea che indica nelle attività manifatturiere la via d’uscita dalla crisi e l’unica vera possibilità per l’Europa di ritornare ad avere, dopo decenni, un ruolo centrale nell’economia e nella cultura (l’affermazione non è mia ) mondiale. L’esame di qualifica triennale di questi giorni ha confermato peraltro che gli studenti, rispetto ai vecchi esami di qualifica statale terminati lo scorso anno scolastico, hanno percepito che la prova è diventata più o meno una mera formalità; e siamo appena all’inizio. D’altra parte la complessa struttura dei percorsi regionali che ha già portato alcuni collegi dei docenti, compreso quello della scuola da me diretta, a rinunciare definitivamente al percorso integrato, ci obbliga a far sostenere gli esami a settembre, a pochi giorni di distanza da quelli di riparazione, con modalità che si preoccupano maggiormente di accontentare la forma anziché la sostanza. Rispetto ad una realtà del genere, sia la Regione che l’Ufficio scolastico regionale hanno progressivamente dimostrato una maggior disponibilità a misurarsi con le nostre istanze. Naturalmente è molto apprezzabile che la Regione e l’USR, di fronte all’alto numero di bocciati nelle prime classi, malgrado il percorso integrato, abbiano deciso di sperimentare un nuovo modello, anche se non in più di dieci classi degli istituti alberghieri toscani. Purtroppo questa loro disponibilità non ha per ora incontrato quella di altre scuole e di altri dirigenti scolastici. Così le classi che sperimentano questo nuovo percorso sono quelle di soli due istituti professionali: il Saffi e il Vasari di Figline. Il nostro percorso complementare è ispirato a quello già da tempo avviato in alcune scuole del Veneto, tuttavia con qualche importante variante, almeno sul piano della strategia didattica. La più significativa di queste consiste senz’altro nell’offrire ai ragazzi l’opportunità di potersi misurare, soprattutto in prima e seconda, con un maggior numero di ore dedicate alle discipline tecnico-pratiche, sottratte a materie come italiano e matematica, eliminando fisica e chimica a vantaggio delle discipline centrate sull’esperienza pratica. In terza, gli studenti potranno recuperare le competenze di base quando avranno saputo trovare le giuste motivazioni e gli opportuni equilibri cognitivi per poter finalmente comprendere e utilizzare in modo consapevole e appropriato i contenuti fondamentali di materie come lettere e matematica. E sempre in terza, saranno attivati corsi aggiuntivi per permettere di acquisire le altre competenze di base in fisica e chimica, non studiate in prima e seconda, a chi desidera rientrare l’anno successivo, in quarta, nel percorso dell’istruzione. Tale recupero avverrà diminuendo le ore delle discipline tecnico-pratiche, che rimangono tuttavia numerose e già privilegiate in prima e seconda classe, e corroborate, sempre in terza, dalle attività di stage. Il percorso complementare, inoltre, potrà permettere a quegli studenti del corso tradizionale, che nei primi mesi di scuola si trovino a vivere situazioni di demotivazione per non aver trovato quello che si aspettavano, di poter passare al percorso maggiormente professionalizzante. Occorre davvero ribadire che i percorsi tradizionali costringono gli studenti a seguire 12-13 discipline, che sarebbero senz’altro insopportabili e didatticamente insostenibili anche per gli stessi percorsi liceali. Insomma, come accade in molti altri paesi europei, abbiamo sentito la necessità di andare incontro alla formazione dei ragazzi piuttosto che alle convinzioni di chi, in nome di principi astratti e forse ideologici, pensa che si diventi adulti sereni e responsabili solo se abbiamo percorso un certo tipo di studi. Da una parte si auspica una scuola sempre più attenta ai bisogni di ciascun studente, dall’altra si costringono migliaia e migliaia di ragazzi a un tipo di scuola che finisce per spersonalizzarli. Ecco, sono davvero alla fine, e vorrei così chiudere il cerchio richiamando proprio il tema del sogno accennato all’inizio di questo intervento. A tale proposito mi preme affermare che anche per me i sogni hanno un profondo valore, tuttavia non accetterei mai che la mia immagine del mondo e del futuro diventasse una gabbia per gli altri, se gli altri sono in particolare dei giovani ai quali dobbiamo rispetto e comprensione per le loro attese; soprattutto se queste attese sono finalizzate a un progetto di vita. Qualsiasi azione educativa e formativa non può essere ispirata da asserzioni categoriche e, diciamolo pure, prettamente ideologiche. Sia concesso ai ragazzi di fare le loro scelte, rendiamoli liberi dai pregiudizi sociali e incoraggiamoli a scoprire e a valorizzare i propri talenti e i propri sogni, invece di costringerli a seguire i nostri. Insomma, come canta Giorgio Gaber nella sua ultima struggente canzone, senza insegnare loro la nostra morale, soprattutto se vogliamo sperare in un nuovo umanesimo, che poi forse significa, citando Charles Peguy, tornare a scolpire, come accadeva un tempo, gambe di sedie ben fatte non per il salario, né per il padrone, né per i clienti del padrone. Ma ben fatte in sé; una storia, un assoluto, un onore esigevano che quelle gambe di sedia fossero ben fatte e che ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o non visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. E così, a distanza di oltre un secolo da queste importanti e nello stesso tempo suggestive riflessioni di Péguy, la mia sensazione è che si debba ripartire proprio da una consapevolezza dello stesso genere, che esprime un profondo riconoscimento nei confronti di un uomo che sa trovare il senso più profondo di sé e il suo talento nel fare bene quello che fa, perché ogni lavoro ben fatto, qualunque esso sia, è sempre il frutto di un uomo ben fatto. |