I BES non si certificano! di Flavio Fogarolo*, Superando 23.10.2013 Le recenti disposizioni ministeriali sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) hanno suscitato, come è noto, un vivace dibattito dentro e fuori la scuola, con molti pronunciamenti pienamente favorevoli e altri critici o preoccupati [anche il nostro giornale, nei mesi scorsi, ha ampiamente partecipato a tale dibattito, come si può vedere dall’elenco dei testi qui a fianco pubblicato, N.d.R.]. Si evidenzia da molte parti soprattutto il rischio di medicalizzare dei semplici problemi educativi e di etichettare in questo modo delle normali differenze individuali. Il rischio è reale, ma non deriva, a parer mio, dalla Direttiva o dalla Circolare Ministeriale [rispettivamente Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e Circolare Ministeriale 8/13, N.d.R.] e di sicuro non è stato il Ministero a “inventare i BES”. È infatti già da molti anni – prima con la disabilità e poi con i DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento) – che domina nelle scuole, unico e praticamente incontrastato, un modello di tipo clinico: i bisogni vanno “certificati”, ossia riconosciuti formalmente da un’autorità sanitaria esterna alla scuola, e solo in seguito a questa procedura gli insegnanti si attivano personalizzando gli interventi. Passare da un’impostazione di questo tipo a una pedagogico-didattica, come richiesto e previsto per i BES, non è per nulla banale e non possiamo stupirci se questa innovazione sia fonte di difficoltà, non tanto di resistenze, nelle scuole.
Si registra infatti
spesso, in questi primi mesi di applicazione delle nuove
disposizioni, la propensione ad applicare anche ai BES il modello
clinico, con la scuola che tende ad assumere il ruolo degli
specialisti e individuare gli stessi BES in base a misurazioni
oggettive, o presunte tali, una volta definita la soglia critica. In
alcune scuole, ad esempio, si sottopongono tutti gli alunni a delle
prove standardizzate di lettura e vengono considerati come “BES”
tutti gli alunni che riportano punteggi inferiori a un certo
livello. È una forzatura, questa, che non è certo imputabile alla
Circolare Ministeriale 8/13, che anzi afferma chiaramente che
l’individuazione va fatta in base a «ben fondate considerazioni
psicopedagogiche e didattiche».
I BES non si
certificano! Non possono farlo i servizi sanitari, né in modo
diretto o esplicito («il bambino/ragazzo XY è un alunno con Bisogni
Educativi Speciali», fortunatamente sono pochi, ma arrivano alle
scuole anche certificati di questo tipo), né indiretto, e questa è
una pratica invece molto diffusa: dopo avere segnalato disturbi o
difficoltà, si conclude dicendo che per questo alunno la scuola deve
applicare le tutele previste dalla Circolare Ministeriale 8/13. Ma
inserire in una diagnosi clinica una dichiarazione di questo tipo
costituisce un’inaccettabile invasione di campo, dal momento che
l’applicazione della Circolare 8/13, ossia di fatto l’individuazione
dell’alunno come BES, rientra nell’àmbito della didattica e non in
quello della clinica, ed è pertanto una prerogativa esclusiva della
scuola. Una prerogativa che non si basa certamente sull’arbitrio («a
scuola facciamo quello che vogliamo»), ma su quell’assunzione di
responsabilità che è strettamente connessa all’autonomia scolastica
e educativa. A fronte di un bisogno clinicamente accertato e
documentato, la scuola deve cioè organizzarsi e dare una risposta,
ma è “responsabilmente” autonoma nel decidere cosa fare e come
farlo, attenta cioè a verificare l’efficacia degli interventi
attivati e a rivedere le scelte se necessario. Vale la pena a questo punto ricordare cosa dice al riguardo la più volte citata Circolare Ministeriale 8/13: «[…] è compito doveroso dei Consigli di classe o dei teams dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri casi sia opportuna e necessaria l’adozione di una personalizzazione della didattica […]».
La scuola, quindi, non
dichiara gli “alunni BES”, né tanto meno li certifica, ma individua
quelli per i quali è «opportuna e necessaria» una personalizzazione
formalizzata, ossia un PDP (Piano Didattico Personalizzato).
Pertanto il PDP non è una conseguenza di questo riconoscimento come
per la disabilità e i DSA («Questo alunno è BES quindi la scuola
deve predisporre un PDP»), ma parte integrante dell’identificazione
della situazione di bisogno («Questo alunno è BES perché secondo la
scuola ha bisogno di un PDP»). Identificare un alunno come BES significa riconoscere per lui la necessità non solo di un percorso didattico diverso da quello dei compagni, ma anche di una sua ufficializzazione, come assunzione formale di impegni e responsabilità da parte della scuola e, se possibile, anche della famiglia. Ossia di un PDP, appunto.
La scuola è chiamata
pertanto a decidere sull’opportunità di questa scelta, che di sicuro
non dipende solo dall’entità del bisogno, ma si basa sulla
valutazione dell’effettiva convenienza della strategia didattica
personalizzata che si intende attuare. La seconda conseguenza, poi, è che, almeno a grandi linee, quando identifica l’alunno come BES, la scuola deve avere già chiaro il tipo di intervento che intende attuare con quello specifico alunno, a supporto delle sue difficoltà, perché solo in questo modo è possibile una consapevole valutazione di convenienza. Paradossalmente possiamo dire che gli alunni nei confronti dei quali ci si sente impotenti perché non si sa cosa fare per loro, per quanto evidenti e gravi siano i loro bisogni educativi, non possono essere considerati BES finché non si sarà grado di dire come si intende effettivamente personalizzare il loro percorso, per poter valutare se esso sarà opportuno e conveniente.
Andranno quindi
certamente considerate anche le esigenze di personalizzazione
collegate alla definizione dei livelli minimi di competenze, nonché
alle forme e ai criteri di valutazione, sempre, però, considerando
parametri di opportunità e convenienza. Le esigenze connesse alla
valutazione, ad esempio, saranno molto più sensibili quando si
avvicinano gli esami, o nel secondo ciclo di istruzione; in altri
casi la valutazione avrà comunque per tutti un ruolo prevalentemente
educativo e alcune personalizzazioni potranno essere introdotte
anche senza bisogno di un adempimento formale (ossia del PDP). In
ogni caso esse devono derivare sempre da delle scelte e dal
confronto tra vantaggi e svantaggi. La riscoperta attenzione verso gli alunni con Bisogni Educativi Speciali va vissuta realmente, e non solo a parole, come un’opportunità per le scuole, ossia come la “possibilità”, non l’obbligo, di fare alcune cose che prima sembravano impossibili, o quanto meno di dubbia legittimità, come formalizzare un percorso diverso anche per chi non abbia portato a scuola documenti o certificati particolari. Adesso sappiamo ufficialmente che possiamo fare molto anche per loro, per i nostri sans papiers che, almeno a scuola, non devono necessariamente essere considerati “cittadini di serie B”. Un atto di giustizia, ma anche un altro passo avanti per un’effettiva responsabilità e autonomia delle scuole.
*
Flavio
Fogarolo, |