Il flop della ricerca scientifica di Giorgio Israel, Il Messaggero 30.10.2013 L’ultimo numero dell’Economist denuncia con un dossier (“How the science goes wrong”) il preoccupante declino della qualità della ricerca scientifica. Un numero sempre maggiore di articoli si rivelano privi di fondamento, basati su dati o statistiche sbagliati o taroccati, su analisi approssimative; il rigore nella selezione delle pubblicazioni è in caduta libera. La scienza – osserva la rivista – dal Settecento ha cambiato il mondo e ancora ha diritto a un enorme rispetto. Ma il suo status privilegiato si basa sulla capacità di fornire risultati quanto più possibile esatti e, soprattutto, di correggere i propri errori. Poiché questo accade sempre meno, ora è la scienza a dover cambiare. Negli stessi giorni la rivista New Scientist batte sullo stesso tasto, mettendo sotto accusa, in particolare, le neuroscienze, ritenendo «ormai chiaro che la maggioranza dei risultati» ottenuti in questo campo «sono spuri come le onde cerebrali di un pesce morto». L’allusione è a una celebre esperienza di alcuni anni fa, in cui si sottopose a risonanza magnetica un salmone morto rilevando un’attività cerebrale quando il cadavere del pesce “vedeva” delle persone. Un approccio serio avrebbe dovuto suscitare un approfondimento delle correlazioni tra quelle tecniche e l’attività cerebrale, ma si è fatto finta di niente. Le ragioni di questo andazzo preoccupante sono almeno tre. In primo luogo, il numero crescente di ricercatori che sgomitano per farsi largo in un palcoscenico troppo affollato. Poi il principio del “publish or perish” che, soprattutto nel contesto statunitense, obbliga il ricercatore a pubblicare secondo precisi obbiettivi quantitativi, altrimenti è spazzato via. Se un ricercatore, per essere confermato, deve pubblicare in quattro anni due libri e sei articoli, baderà poco alla sostanza e s’ingegnerà a inventare qualsiasi cosa pur di sfangarla. Ma la produzione di risultati davvero originali richiede talvolta lunghi periodi in cui si studia, si riflette o si sperimenta, senza pubblicare. Il terzo aspetto è dato dalla degenerazione dei sistemi di valutazione dei lavori. Si è ritenuto che l’introduzione dell’anonimato di chi dà un parere su un lavoro presentato a una rivista sia garanzia di autonomia, e invece esso si è rivelato un sistema perverso che consente al recensore di scrivere nel giudizio qualsiasi cosa senza metterci la firma e la faccia, e di compiere impunemente operazioni mafiose, come favorire gli amici e penalizzare i nemici o i concorrenti. A ciò si aggiunga l’idea “geniale” di valutare la qualità di un ricercatore o di una rivista senza leggere la loro produzione, mediante sistemi bibliometrici basati sul calcolo del numero di citazioni. In questi anni si sono moltiplicate le denunce degli effetti perversi di questo sistema, ma esso è sostenuto dai potenti interessi delle ditte che fanno i conteggi bibliometrici e la macchina infernale sembra inarrestabile. Si aggiunga un aspetto che è forse il più grave di tutti. La qualità della ricerca è compromessa soprattutto in alcuni settori delle scienze biologiche, in particolare della genetica e delle neuroscienze. In questo ambito dominano due postulati: che tutto sia nei nostri geni e che i nostri pensieri siano rivelabili con tecniche di risonanza magnetica funzionale. Il carattere ideologico di questi postulati è confermato dal fatto che essi resistono a qualsiasi confutazione, anche ai salmoni morti: gli studiosi più avvertiti ripetono che il primo postulato è manifestamente falso, soprattutto nella pretesa di individuare mediante i geni, in modo meccanico, le nostre capacità intellettuali; e che la risonanza magnetica funzionale rileva processi macroscopici che individuano correlazioni troppo vaghe con l’attività mentale. Ma ogni avvertimento è vano perché è facile far ricerca su questi presupposti, “scoprendo” un giorno il gene della gelosia e l’altro il gene della generosità, o analizzando i flussi sanguigni cerebrali di una persona mentre fa una versione in prosa o legge una poesia; e su questa base scrivere articoli di valore nullo ma che servono a far carriera. Fin qui il danno sarebbe serio ma resterebbe interno alla ricerca. Tuttavia, le cose si fanno gravi per tutti se dilagano di personaggi di dubbia competenza che vanno in giro a far seminari (magari nelle scuole) per spiegare che i bambini che hanno difficoltà con la matematica hanno difetti neuronali, senza essere ovviamente in grado di proporre altro che chiacchiere nebbiose. Ma di gran lunga più gravi sono i tentativi di mettere in piedi interventi massicci e promossi dallo Stato. Di recente, lo psicologo americano Robert Plomin, professore al King’s College di Londra, ha proposto di sottoporre i bambini a dei test genetici di massa per individuare la scelta scolastica migliore perché, secondo lui, dai geni si può dedurre in quale disciplina risulteranno migliori. Inutile dire che si tratta di affermazioni prive di qualsiasi base scientifica seria. Se è già problematico stimare quanto sia consigliabile fare certi interventi chirurgici per prevenire una malattia sulla base di un test genetico, la correlazione tra geni e disposizioni mentali e intellettuali è un territorio inesplorato. Difatti, è fin troppo evidente (e viene ripetuto invano dagli studiosi seri) che in questo ambito giocano tanti di quei fattori epigenetici, sociali, culturali, da rendere marginale il fattore genetico. Eppure c’è chi prende sul serio queste proposte. Non ci si rende conto di riproporre l’immagine del Brave New World di Huxley: una società totalitaria in cui la persona non ha scelta, perché nasce predeterminata a fare questo o quel mestiere, e a vivere in un certo modo. Già un secolo fa l’eugenetica, diffondendo miti analoghi, ha fornito basi pseudoscientifiche per i razzismi che hanno devastato il Novecento. Ora vediamo risorgere lo stesso spettro che, con la stessa inconsistente pretesa di scientificità, promette nuovi disastri sociali. |