MASCHI E FEMMINE Scuole separate, il dibattito è aperto
Nei Paesi anglosassoni sono sinonimo di
eccellenza. di Monica Ricci Sargentini, Il Corriere della Sera 3.10.2013 Inizio ottobre in Gran Bretagna. Per le strade di Londra gli studenti in divisa entrano in classe: i maschi da una parte, le femmine dall’altra. Ma quella che agli occhi di un italiano può sembrare una scena d’altri tempi, nel Regno Unito è la normalità. Nella classifica britannica dei migliori istituti secondari privati quelli omogenei, dove gli studenti sono separati per sesso, rappresentano 21 delle prime 25 scuole, 16 femminili, 5 maschili. Anche nelle pubbliche 15 dei primi 25 istituti sono monogenere, 9 femminili e 6 maschili; un risultato eccellente, soprattutto se si pensa che sono soltanto il 2% del sistema statale.
Lo stesso accade negli Stati Uniti, dove la scelta di dividere i sessi è una realtà consolidata, anche se minoritaria, dall’800 quando furono fondate le sette sorelle, università undergraduate da contrapporre a quelle dell’Ivy League, allora appannaggio solo dei maschi. E ancora oggi molte donne leader hanno studiato in un college femminile e ne sponsorizzano la scelta, a cominciare da Hillary Clinton e Nancy Pelosi. In America, poi, l’educazione separata ha ripreso piede anche nelle scuole di primo e secondo grado a partire dal 2006, quando il Ministero dell’Educazione ha modificato l’applicazione del “Title IX”, la norma, varata nel 1972, che proibiva la discriminazione sessuale nei programmi scolastici finanziati con denaro federale.
Nel mondo le scuole monogenere, sia statali che non statali, sono più di 210.000 con oltre 40 milioni di alunni. Una tendenza che prende piede anche nella vecchia Europa dalla Germania, dove le scuole single sex sono circa 200, alla Francia dove arrivano quasi a 250. L’Australia, invece, ne conta ben 1479 con risultati nell’apprendimento tra il 15 e il 22% migliore di quelle miste; in Giappone, poi, ci sono più di 400 istituti omogenei. I fautori dell’educazione separata sostengono che ragazzi e ragazze hanno stili e i ritmi di apprendimento molto distanti tra loro. Di conseguenza, un insegnamento che li tratti come se fossero identici, utilizzando la stessa strategia didattica e pretendendo lo stesso tipo di rendimento, va a svantaggio di entrambi. L’idea non è quella di impartire un’ educazione diversa nei contenuti, anzi l’ obiettivo è di potenziare al massimo le capacità individuali in ogni campo, riducendo così gli stereotipi di genere, quelli che, per esempio, vogliono i maschi bravi nelle materie scientifiche e le femmine in quelle umanistiche. L’argomento è controverso e suscita anche forti reazioni, soprattutto negli Stati Uniti dove l’educazione omogenea ha avuto una sorta di boom negli ultimi anni. Nel 2011 alcuni ricercatori del Consiglio Americano per la scuola mista hanno pubblicato su Science uno studio dal titolo eloquente: “La pseudoscienza della scuole single sex”, nel quale si sostiene che non c’è alcun vero dato scientifico a sostegno di queste tesi e che il successo delle scuole monogenere è dovuto semplicemente al fatto che sono molto selettive. Ma, nel 2012, uno studio dell’Università della Pennsylvania, arriva alla conclusione opposta: “Frequentare una scuola single sex porta al raggiungimento di risultati significativamente migliori”. Carlo Finulli insegna dal 1984 in una scuola elementare maschile di Milano gestita dal Faes, un’associazione di genitori e insegnanti che si rifà ai principi educativi del fondatore dell’Opus Dei, Josemaría Escrivá. “Le bambine sin da piccole sono più ordinate e possono seguire lezioni più lunghe – spiega al Corriere -. I maschi hanno bisogno di più pause e di molta competitività. I dati dimostrano che nelle classi miste le femmine non danno il massimo perché si adeguano al ritmo dei maschi”. E’ importante che anche gli insegnanti siano omogenei: “In questi anni ho constatato che per i ragazzi avere un maestro dello stesso sesso aiuta a stabilire la relazione con l’autorità. Si cresce con i modelli” dice Finulli. A Milano il 16 settembre il Faes ha inaugurato due nuove sedi in Città Studi. L’arredamento, ipermoderno, è stato scelto consultando anche gli alunni. Alla Monforte, femminile, ogni corridoio ha un colore diverso e gli spazi per le consultazioni con i tutor (gli insegnanti che seguono gli alunni passo passo nel loro sviluppo) sono aperti, un tavolino e due sedie. All’Argonne, invece, prevale di più il bianco e il grigio. I ragazzi hanno voluto abbellire le pareti con i codici di programmazione informatica che percorrono i corridoi a mo’ di grechetta. E per gli incontri ci sono dei gabbiotti trasparenti, più privati. Nel mondo il dibattito è in corso ma in Italia le uniche scuole ad essere omogenee sono quelle del Faes. Quattordici istituti in sette città, da Milano a Palermo, con circa 3 mila alunni. I programmi sono uguali, maschi e femmine seguono le medesime attività. Si gioca a scacchi, si fa teatro e non ci sono i bidelli. A turno ogni giorno sono gli allievi ad occuparsi della scuola svolgendo compiti di segreteria che li responsabilizzano. Un metodo che sembra essere vincente. Secondo uno studio, condotto dalla Fondazione Agnelli nel 2012, sui risultati ottenuti dai diplomati nel primo anno di università, il liceo Classico Monforte è risultato il primo a Milano e il 19simo nella classifica generale della Lombardia. Seguito a ruota dal più famoso e statale Giovanni Berchet nato nel 1912 come quarto liceo ginnasio del capoluogo lombardo e da sempre considerato un suo fiore all’occhiello. Non negano le differenze tra i due sessi ma restano convinti della scelta, fatta nel 1985, di passare alla classi miste al Collegio San Carlo, l’istituto che ha appena ottenuto, per il quarto anno consecutivo, l’alfierato del lavoro con una delle 25 maturità più brillanti d’Italia: “Sappiamo che le diversità possono creare qualche problema ma alla fine maschi e femmine si aiutano tra di loro — spiega al Corriere il rettore Don Aldo Geranzani —. Tutto dipende dalle capacità del docente di fare una didattica il più possibile personalizzata tenendo conto delle inclinazioni di ognuno. Per far questo, però, è necessario che le classi siano piccole”. Nel nostro Paese la divisione in classi maschili e femminili nelle scuole statali è stata abbandonata negli anni ’60 in nome delle pari opportunità e per aumentare l’interazione tra i due sessi. Una scelta che allora aveva un perché ma quarantacinque anni dopo è ancora così? Oggi in America la separazione a scuola è benedetta da femministe come la ricercatrice Carol Gilligan, che la giudica “lo strumento migliore per crescere ragazze creative e capaci di assumersi rischi”. Eppure da noi l’idea viene ancora bollata come retrograda. Perché? “Effettivamente in Italia – dice Mariolina Ceriotti Migliarese, neuropsichiatra infantile - la scuola omogenea viene considerata un tabù al punto che le famiglie non conoscono questa possibilità, da un lato perché sono poche le scuole omogenee, dall’altro perché c’è un forte pregiudizio contro questo tipo di scelta, e a mio parere il pregiudizio nasce prevalentemente dal fatto che trovandoci in un Paese di cultura cattolica immediatamente la divisione fra sessi fa pensare che ci sia in chi fa questa scelta una sorta di paura a far condividere lo spazio e il tempo tra i maschi e le femmine”. Di questa idea è la psichiatra Federica Mormando: “Dividendo non si fa che aumentare l’incisività di vecchi stereotipi – spiega -, non si fa che autorizzare la maggior violenza dei maschi e educare le bambine ad essere vittime”. Dal punto di vista strettamente scolastico i più danneggiati dall’ educazione mista appaiono i maschi perché sviluppano più tardi e più lentamente in settori come le abilità linguistiche, che invece sono privilegiate dalla scuola, apprendono più facilmente se lo stile di insegnamento è dinamico anziché libresco, e risentono dell’ onnipresenza femminile nel corpo insegnante, che nega loro modelli dello stesso sesso con cui identificarsi. Non è un caso, dicono gli esperti, se nelle scuole superiori gran parte della dispersione scolastica riguarda i ragazzi. In America sono sempre più i maschi che lasciano la scuola prima di prendere diploma mentre le università assistono impotenti alla femminilizzazione dei campus. In un articolo, uscito il 16 settembre sul mensile The Atlantic, ci si chiede “che cosa possiamo fare per migliorare le prospettive dei bambini?”. “In primo luogo riconoscere che maschi e femmine sono diversi – è la risposta -. In molti settori dell’educazione e del governo parlare della differenza tra i sessi rimane un tabù”. Per concludere le scuole omogenee possono essere una scelta da considerare sia per ragazzi che per le ragazze. Perché? Ce lo racconta Amy Ellis Nut, una giornalista del quotidiano americano The Star Ledger che nel 2011 ha vinto il premio Pulitzer per un suo reportage su una nave che affonda: “Un college femminile ti garantisce di fare quello che vuoi, di essere quello che vuoi. Io mi sono laureata nel 1977 a Smith College in inglese e filosofia. E ho fatto il post laurea al Massachussetts Institute of Tecnology (Mit), a quel tempo le donne non si iscrivevano a filosofia o a logica e certamente non andavano all’Mit. Io ero l’unica donna nella mia classe ma non mi sono sentita mai a disagio. A Smith eri circondato da ragazze che avevano fame di sapere e non c’era nessuno che pensasse che siccome eri una donna non potevi farcela. E’ una cosa che si instilla dentro, che è nell’aria, che respiri”. |