Scuola superiore, quarto e quinto anno

Più lunga o più corta, quello che conta è ripensarla

di Fiorella Farinelli, ScuolaOggi  28.11.2013

Bisognerebbe sapere cosa ne pensano gli studenti del quinto anno (e i neodiplomati) di un’eventuale riduzione della durata della secondaria superiore. Indagini mirate, al momento, non ce ne sono. Fin troppe, invece, le testimonianze che del quinto anno parlano come di tempo sprecato perché fin dai primi mesi è soprattutto alle discipline sicuramente o probabilmente oggetto di esame che si guarda e, dopo la liquidazione di ogni incertezza, solo a quelle. E poi, almeno per chi è già orientato a determinate facoltà, c’è il cruccio di non potersi preparare nello stesso tempo ai test di accesso e alla maturità. Sarà forse ancora peggio, quest’anno, dopo le strane vicende dell’estate scorsa , quelle dei bonus scomparsi improvvisamente e poi riapparsi : che cosa conta di più, una votazione alta agli esami finali o una buona performance nei test ? A tagliare la testa al toro, ci pensano gli atenei che decidono sempre più numerosi di anticipare le prove al quarto anno. Diversa, ma solo apparentemente, la situazione di chi dopo il diploma guarda subito al lavoro. Perché anche qui la transizione, sempre più difficile, all’inserimento professionale, obbliga quasi sempre ad aggiungere qualcosa – ma in che direzione ? e quanto tempo serve per trovarla? – al solo possesso del diploma. Il quinto anno, insomma, traballa, anche indipendentemente dalla sperimentazione dell’accorciamento di un gruppetto di istituti statali e paritari. Cinque anni non sono pochi, del resto, dopo gli 8 del primo ciclo ( o gli 11, contando anche la scuola per l’infanzia ), visto che si sono allungati sia i percorsi universitari sia quelli post-diploma, e soprattutto quelli della ricerca del lavoro.

Ma cinque anni,soprattutto, sono anomali rispetto alla maggior parte dei paesi europei in cui da scuole dello stesso tipo si esce non a 19 anni ( o a 20 e 21 ) come da noi, ma a 18 , non a caso l’età della maggiore età e del diritto di voto. E’ così in Francia, in Spagna, nelle scuole tecniche svizzere e tedesche, in Olanda, nel Regno Unito . E’ così, curiosamente senza scandalo, anche nei licei italiani all’estero, che pure hanno stessi programmi e stessi titoli in uscita dei licei in patria. E pure nei licei internazionali, da cui si esce con diplomi validi per tutta Europa. Non che ci si debba per forza omologare, anche nell’istruzione, a quello che si fa da altre parti - ogni paese, si sa, ha le sue tradizioni - e tuttavia qualche domanda si pone. Siamo sicuri che sia utile, per i due milioni e mezzo di studenti delle superiori, questo anno in più ? Disponiamo di prove provate che serva ad imparare meglio , a scegliere con minori margini di errore gli studi futuri, a orientarsi con maggiore sicurezza rispetto agli sbocchi professionali ? Insomma di che si tratta, di vantaggio o di ritardo ? I dubbi ci sono, e non da oggi. A ridurre da 13 a 12 anni il ciclo dell’istruzione iniziale, ci hanno provato ministri di diversa impostazione politica e culturale, prima Berlinguer e poi Moratti. Con proposte diverse, ma tutte immancabilmente respinte al mittente. Più recentemente, ne carezzò il proposito anche l’evanescente ministro Profumo. A viale Trastevere si sono fatte analisi, documenti, ipotesi di lavoro. L’idea, insomma, non è improvvisata, e neppure si può liquidarla, se non altro perché nata in tempi non sospetti, ascrivendola all’odiosa categoria dei “tagli all’istruzione”. Intendiamoci, qualche intenzione risparmiosa ci sarà di sicuro, se non al ministero dell’istruzione in quello delle finanze. Ma non è la spesa pubblica il focus, anche perché un eventuale accorciamento non produrrebbe risparmi, almeno inizialmente. I costi da considerare sono quelli sostenuti dalle famiglie per un’istruzione sempre più lunga e per un’autonomia dei figli sempre più lontana. E quelli pagati dai giovani per una dilazione sempre più spinta dei tempi dell’inserimento professionale. Che significa tante cose, anche rinvio dei tempi dell’uscita di casa, della vita di coppia, dei figli. E comunque il ministro Carrozza si sta muovendo con prudenza, una sperimentazione ( da noi ) non è affatto una decisione. Ma bisogna prima rispondere a quella domanda, i 13 anni di scuola - invece che i 12 di altri paesi- sono un vantaggio o uno svantaggio?

Dal punto di vista dell’apprendimento, lo dicono anche gli esperti OCSE che a fare la differenza non è la durata. Le indagini internazionali mostrano che ragazzi italiani, con la loro scuola più lunga e i loro ritmi più lenti, non ne sanno di più, a partire dalle competenze linguistiche e matematiche, dei coetanei degli altri paesi, e sono anzi parecchio sotto sia alla media UE che a quella OCSE in più di due terzi del territorio italiano ( fanno eccezione, come noto, l’”eccellente” Nord Est e alcune aree del Nord Ovest ). Anche per insuccessi e abbandoni, lo svantaggio italiano è del tutto evidente. Ma è l’orientamento alle scelte successive al diploma il punto dolente, perché tra il primo e il secondo anno quasi un terzo degli studenti universitari cambia facoltà o abbandona nei fatti la partita. Mentre i diplomati interessati ad entrare subito nel mercato del lavoro perdono di solito un bel po’ di tempo prima di capire qual è la cosa giusta. La scuola superiore italiana è lunga ma, indiscutibilmente, poco orientativa.

Concentrata com’è su programmi pletorici e su un elenco nutritissimo di discipline considerate tutte egualmente essenziali per tutti ( e non bastano, perché il parlamento, su pressione delle varie lobbies, prova sempre ad aggiungerne altre), non permette di approfondire le vocazioni individuali; e neppure di prepararsi per tempo all’ accesso agli studi universitari. Le scuole di altri paesi non solo sono più brevi ( e, si deve ammetterlo, parecchio più efficaci ), ma prevedono – almeno tra i 16 e i 18 anni – che accanto al “core curriculum” cioè all’insieme delle conoscenze/competenze per tutti ci siano aree opzionali disciplinari o di approfondimento attraverso cui capire la strada da imboccare. Bisogna proprio arrivare alla notte dopo gli esami per maturare una qualche responsabilizzazione individuale rispetto al proprio futuro ? Non c’è forse, in percorsi formativi sempre più lunghi, il riflesso di una società che i giovani tende ad isolarli in un mondo a parte, un po’ per eccesso di tutela un po’ per ridurne la concorrenzialità professionale con le fasce più adulte?

Anche l’insistenza sull’ alternanza studio-lavoro come via principale per lo sviluppo dell’autorientamento e delle competenze per la vita attiva non convince del tutto. Sono esperienze utili, se fatte bene, ma non sostituiscono la prova del fuoco di una verifica delle vocazioni e delle attitudini attraverso percorsi di studio in specifici comparti disciplinari scelti autonomamente. E’ davvero curiosa, del resto, una scuola che, mentre si addobba ad ogni piè sospinto dell’obiettivo dello sviluppo dell’autonomia e della responsabilità dei giovani, li inchioda per cinque anni a una scelta fatta a 14 , quasi sempre al buio e condizionata dalle famiglie e dal back ground . Senza poter cambiare una virgola, anche dopo il raggiungimento della maggiore età. Perché, si sa, ogni disciplina è assolutamente essenziale per tutti (e tutti gli insegnanti, si sa anche questo, sono e devono restare uguali nelle prestazioni, negli orari di lavoro eccetera ).

Tutto ciò spiega perché l’eventuale accorciamento non dovrebbe significare, come già si sente dire, la contrazione in quattro anni di tutto quello che ora si fa – o si dovrebbe fare – in cinque, ma piuttosto una radicale riorganizzazione dei curriculum, con l’articolazione, almeno nel secondo biennio, tra un “core curriculum” e aree di opzione, di approfondimento, di preparazione alle scelte successive. Con un’articolazione, di conseguenza, anche degli esami finali in una prova principale sulle discipline fondamentali al quarto anno, e in contestuali o successive certificazioni utili per l’accesso all’università o per l’ingresso nel lavoro. Come in Francia, appunto, e in altri paesi. Una via obbligata, tra l’altro, per scongiurare il rischio che un accorciamento attraverso incrementi del monte-ore didattico settimanale si traduca in impoverimento formativo o in inasprimento di insuccessi ed abbandoni. Si muoverà in questa direzione la sperimentazione autorizzata dal ministro Carrozza ? Saprà, oltre a questo, tirare il filo dell’essenzializzazione dei contenuti e della didattica per competenze ? La discussione che si è avviata, purtroppo disordinatamente ( ma in Italia, ormai, funziona così ), non si è ancora inoltrata – se non forse nelle segrete stanze di viale Trastevere - sui tanti temi trascinati da un’innovazione di questa portata. A prevalere c’è per il momento il solito allarme per un temuto decremento occupazionale. Quanti potrebbero essere gli insegnanti ( e i bidelli, gli amministrativi, i tecnici, i dirigenti ) in meno?

Desolante, sebbene prevedibile nel dilagante vizio nazionale del sottrarsi a ogni discussione di merito sull’ innovazione rifugiandosi nell’allarmismo. Sarebbe meglio, proprio attraverso la sperimentazione, verificare l’impatto sugli organici di un ampio menù di aree opzionali e di approfondimento, di percorsi contestuali o successivi di preparazione alle scelte future, di una didattica finalmente per competenze, dell’introduzione di quelle “figure di sistema” sempre liquidate per via contrattuale o altro, di quegli specialismi che chissà perché nella scuola non possono essere avere stabilità e riconoscimento, di quella stessa funzione docente mai aggiornata da cinquant’anni, delle stesse regole e criteri di assegnazione dell’organico che il ministero attribuisce alle scuole del tutto indipendentemente dalle scelte di innovazione didattica e organizzativa degli istituti. Con la sperimentazione si dovrebbe verificare anche la possibilità e l’utilizzo di un organico davvero “funzionale” e non meramente aggiuntivo, e delle responsabilità dell’autonomia scolastica su questo versante. C’è invece chi discute di legittimità o meno della via intrapresa.

Già, perché la sperimentazione, questa volta, non ha avuto il placet di un organo nazionale di consultazione decotto da più di un lustro. C’è da sperare che Carrozza, e i ( non molti tecnici ) della pubblica istruzione non si lascino intimidire dalle reazioni scontate, e si dedichino alla verifica di fattibilità con l’attenzione e la lungimiranza che merita un’ipotesi innovativa di questo peso. - See more at:

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