Diplomarsi a 18 anni: La scelta del ministro Carrozza di autorizzare alcune scuole alla sperimentazione di un ciclo di studi superiori della durata di quattro anni va difesa dalle critiche corporative Marco Campione, Europa 29.11.2013 Il ministro Carrozza ha autorizzato la possibilità per alcune scuole superiori di sperimentare un ciclo di studi della durata di quattro anni. Proveremo anche nel nostro paese un modello che preveda il diploma a 18 anni. È così ad esempio nel Regno Unito, in Francia, in Spagna e nelle scuole tecniche tedesche. Se ne parla da molto tempo, ma mai nessun ministro aveva avuto la forza (o semplicemente la volontà) di sfidare le ire dei perenni scontenti e sperimentarne l’attuazione. Tutto è migliorabile. Ad esempio sarebbe stato opportuno sperimentare anche la riduzione del primo ciclo, per consentire una comparazione. Le scuole non devono essere lasciate sole: è auspicabile una commissione di monitoraggio e valutazione, nella quale coinvolgere tutti i soggetti interessati (riferimenti istituzionali e sindacali, ma anche l’associazionismo professionale e delle categorie produttive; la ricerca accademica, ma anche l’Indire e l’Invalsi). Occorre un collegamento stabile tra le scuole investite dal progetto (la rete è prevista, si lavori perché non resti solo sulla carta). Tutto è migliorabile, ma il meglio è nemico del bene e dunque la scelta del ministro va sostenuta e difesa dalle critiche corporative, strumentali o dovute al pregiudizio. Chi si oppone in buona fede invece lo fa per due ragioni: perché teme che la riduzione del monte ore potrebbe avere conseguenze negative sull’apprendimento, in particolare delle discipline; perché teme conseguenze sull’organico e lo considera un altro modo per tagliare risorse e fare cassa sulle spalle della scuola italiana. La prima preoccupazione è eccessiva. È dimostrato che non c’è correlazione alcuna tra i risultati di apprendimento e la durata del percorso scolastico. Naturalmente non vale nemmeno il contrario, l’approccio quantitativo è ingannevole. Cruciale non è quanta scuola si fa, ma come la si organizza, rendendola ad esempio più flessibile. Prendiamo i drammatici dati sulla dispersione, non è un problema di anni di scuola. La scuola è troppo staccata dal tessuto produttivo da una parte e dalla realtà quotidiana dall’altra per apparire “interessante” e “utile”. La scuola italiana di troppa rigidità e scarsa integrazione con il territorio e il tessuto produttivo muore, come ci confermano non solo le fredde statistiche, ma anche le calde impressioni di chi la scuola la vive tutti i giorni; siano essi studenti, le loro famiglie o gli insegnanti e dirigenti più consapevoli. Quanto al secondo punto, verrebbe da dire che il legislatore ha sempre utilizzato strumenti meno raffinati per raggiungere l’obiettivo di ridurre la spesa: tagli al sostegno, meno ore di lezione, zero compresenze, più studenti per classe e il gioco è fatto. Se, al contrario, l’impegno è a utilizzare il 20 per cento di monte ore “risparmiato” proprio per aumentare quella flessibilità tanto necessaria, perché non accettare la sfida dell’innovazione? Alcuni esempi di cosa si potrebbe fare: organico funzionale; compresenze; scuola aperta a giugno e luglio; percorsi di studio-lavoro all’estero e generalizzazione (inclusa l’istruzione liceale) dei tirocini in azienda; interventi di recupero per gli studenti in difficoltà e di potenziamento sulle materie nelle quali eccellono; curriculum più flessibile, che veda la presenza di ore obbligatorie, opzionali e facoltative. Anche la figura del docente potrebbe iniziare a cambiare, avvicinandosi al modello del professionista e del docente-ricercatore: ore di formazione e aggiornamento retribuite e obbligatorie, possibilità di progettare con i colleghi all’interno dei dipartimenti, valorizzazione delle figure di coordinamento organizzativo o tecnico-scientifico. Molte di queste innovazioni sono già presenti sulla carta, ma si è preteso fino ad oggi di festeggiare queste “nozze” così necessarie con i proverbiali fichi secchi. Se la sperimentazione si rivelerà un successo e sarà estesa progressivamente a tutto il sistema, sempre più scuole avranno finalmente il personale per arricchire la propria offerta. Si obietta che non tutti i docenti hanno le competenze e/o la disponibilità per svolgere queste funzioni. Anche fosse, questo consentirà di introdurre forme di differenziazione salariale, per lo più su base volontaria e a seguito di una diversificazione di ruoli, funzioni e carichi di lavoro, ovvero con criteri il più possibile oggettivi. Il numero di scuole coinvolto è oggi molto ridotto per consentire che i risultati siano monitorati, confrontati, analizzati. Sarà interessante ad esempio osservare l’andamento delle iscrizioni e dei risultati in termini di apprendimento. Nei prossimi anni si potrà aumentarne progressivamente il numero e valutarne vantaggi e svantaggi, coinvolgendo innanzi tutto i territori dove queste sperimentazioni avranno luogo. C’è, infine, un ulteriore vantaggio dal passare finalmente dalle parole ai fatti: tutti dovranno smettere di parlare dell’“anno in meno” con pregiudizio (sia esso positivo o negativo) o anche solo con paura o speranza, sentimenti nobili, ma spesso ingannevoli. Affrontare le “cose di scuola” con più pragmatismo e rigore “scientifico” è una delle cose di cui la scuola ha più bisogno. |