La legge delega sull’istruzione di Rosario Drago, ADi 18.11.2013 Uno strumento privo di respiro strategico
La legge delega
sull’istruzione collegata alla finanziaria (chiamata, per timidezza
politica “Legge di stabilità”), genera di primo acchito una fugace
illusione con parole come “stato giuridico” o reclutamento con
“concorso presso le istituzioni scolastiche”. L’illusione, però,
scompare nel volgere di un attimo e il testo si rivela subito per
quello che è: uno strumento privo di qualsiasi respiro strategico. a) la mancata trasformazione del modello “Ministeriale” (ereditato dal Fascismo, con prevalenza della cultura gerarchica, giuridica e burocratica) in un moderno assetto “Tecnico”, con competenze e funzioni, e funzionari, coerenti con la natura e le finalità di un servizio di istruzione in una società democratica e di massa; b) la difficoltà – a 12 anni dal varo del nuovo Titolo V– di attuare la decentralizzazione dell’amministrazione in modo da consentire al Centro di svolgere le funzioni di regolazione, valutazione, indirizzo e ricerca, senza interferenze di carattere ammnistrativo-gestionale, che spettano alla periferia: le scuole e gli Enti Locali (artt. 117 e 118 della Cost.); c) l’eccessiva fiducia nella legislazione come potere magico di trasformazione della realtà: per ogni cambiamento vengono invocate nuove leggi. E la conseguente carenza di strumenti specializzati e permanenti di analisi, di valutazione e di istruttoria delle disposizioni legislative veramente necessarie e di controllo della loro attuazione.
Una delega opaca e ambigua: un restauro conservativo Per questa assenza di respiro, il collegato appare come l’ultimo, quasi disperato tentativo di mantenere in piedi l’attuale assetto organizzativo dell’istruzione, attraverso il restauro conservativo dell’esistente, di cui il Testo Unico – simbolo di stabilità e solidità – è l’immagine più rappresentativa. La delega, in mancanza di obiettivi chiari e coordinati, rimane quindi opaca; dice e non dice, accenna e dissimula intenzioni non esplicitate anche nella frettolosa relazione introduttiva, contrariamente alle regole che presiedono alla redazione di una legge in cui il Governo chiede di legiferare “al posto” del Parlamento, così come ci insegna la dottrina. “La Legge di delega è l’atto che conferisce al Governo la potestà di adottare decreti aventi valore di legge e che determina, con riferimento all’art. 76 cost., l’ambito della competenza di volta in volta attribuita al Governo”: “l’atto” deve essere una legge esaminata e approvata dalle due Camere che espressamente conferisca al Governo la delega e definisca la durata e l’ambito materiale della potestà delegata. Della “legge”, quindi, cioè del suo strumento operativo per definizione, il Parlamento può servirsi non per dettare la disciplina di una data materia, bensì, anche dettandola in parte, per investire il Governo del potere-dovere di provvedervi, nel rispetto dei parametri contestualmente impostigli, i quali devono almeno comprendere l’indicazione del settore specifico da regolare, del tempo a disposizione per farlo e dei principi e criteri da seguire (direttive, finalità, interessi ecc.) (Cervati, Enc. del Dir.).
Si fanno troppe leggi e nessuno pensa a come attuarle Siamo una Repubblica parlamentare, in cui le leggi hanno popolato un cimitero di intenzioni, finalità non attuate, lasciate cadere, superare da altre leggi, o semplicemente dimenticate tra una legislatura e l’altra. In Italia, non solo, si legifera oltre il necessario, ma scrivere leggi è anche l’attività che assorbe di più i politici e i burocrati, mentre il problema di cui ci si dovrebbe occupare è un altro: come attuare le leggi. Nessuno ha tempo per questo. Si legifera alla cieca… e prima della grande crisi, anche facendo debiti. Progetti di primaria importanza e di notevole impegno finanziario e di risorse umane sopravvivono senza che nessuno si sia mai dato la briga di valutarne i risultati: integrazione dei disabili, “zone a rischio”, vari insegnamenti, amministrazione periferica, ecc.
Quasi impossibile il varo di una legge delega Si ritiene, comunque, che sia estremamente difficile che un Parlamento possa approvare una delega come questa: non c’è un governo solido, non c’è una maggioranza coesa, non esiste una visione condivisa e informata della direzione da imprimere al cambiamento della scuola. Su nulla c’è un minimo accordo tra partiti (e gruppi) che garantisca un processo decisionale trasparente e innovativo e celere… per non parlare dell’approvazione dei decreti delegati. Pesa su tutto questo anche la mancanza di analisi, rapporti, valutazioni o semplici informazioni sulle quali i deputati possano verificare gli obiettivi e controllare l’azione del Governo e dell’Amministrazione. Ma forse il Ministro – visti i tempi – confida che il lungo e lento convoglio della legge di stabilità passerà in extremis con un maxiemendamento, trascinando anche il collegato sull’istruzione.
Un nuovo Testo Unico Un altro Testo Unico è sempre utile, ma in un quadro di “semplificazione”. Ora, questo Testo si deve scrivere in 9 mesi, nel frattempo si dovranno approvare decine di decreti legislativi (e successivi decreti ministeriali) che lo cambieranno in punti importanti: non era più saggio redigerlo dopo l’emanazione dei decreti? Il criterio che informerà tali decreti è la semplificazione: troppo e troppo poco. I tentativi finora esperiti in tutte le amministrazioni – compresa l’istruzione – per semplificare la massa abnorme delle leggi, sono falliti: è lo spazio della norma, che va ridotto drasticamente a vantaggio della responsabilità personale, tecnica e gestionale a tutti i livelli.
I provvedimenti messi in campo per l’istruzione Una cosa è comunque certa: l’elenco dei provvedimenti sulla scuola poco hanno a che fare con l’unico criterio che dovrebbe ispirarli, cioè la semplificazione, immediatamente smentito dal punto 1 dei provvedimenti messi in campo per l’istruzione, che esordisce con la magica parola di “Riforma”: - riforma organica del reclutamento. In effetti non si tratta di riforma poiché vengono garantite le tutele, cioè i così detti “diritti acquisiti” e il sistema delle graduatorie. E quindi è improbabile che si arrivi allo smaltimento del precariato, perché per smaltirlo bisognerebbe eliminarlo come canale ordinario di reclutamento, non alimentarlo come fa l’attuale sistema, confondendo il merito con il sistema dei punteggi per anzianità. E rimangono altre domande: il corso-concorso presso le istituzioni scolastiche si riferisce al luogo dove si terrà, ovvero alla competenza delle reti di scuole di bandire ed organizzare le selezioni? In altre parole: saranno le scuole a scegliere gli insegnanti o, come oggi, gli insegnanti a scegliere le scuole?
- Organi
collegiali della scuola. Quali? Gli organi
territoriali ormai defunti o anche gli organi di gestione delle
scuole? Si dice che gli organi Collegiali avranno competenze solo
consultive. Il Consiglio d’Istituto non adotterà più il Pof? - Reti di scuole, già definite ampiamente dal DPR 275/99 (art.7, 10 commi), che cosa si può aggiungere di nuovo in termini di compiti (indefiniti e quindi amplissimi) di incentivo e di forma di coordinamento, che non si possa fare con un semplice decreto o un atto di indirizzo? - Procedimenti relativi allo stato giuridico: è la lettera più oscura di tutte, che cosa comprenderà? Anche i procedimenti relativi ad assunzioni, incarichi, valutazione, carriera, sviluppo professionale, figure di sistema? E il trattamento economico comprenderà anzianità, scatti, pensione? Come ci si muoverà tenuto conto che l’intera legislazione non dovrà prevedere oneri per lo stato e comunque, che la materia è oggi ben “tutelata” dalle OOSS? E poi: rivedere i rapporti tra le diverse fonti di natura legislativa negoziale … va bene come principio, ma rimarrà l’attuale articolazione della contrattazione su cinque livelli? Le Rsu saranno ancora obbligatorie ? I presidi avranno ancora l’obbligo di contrattare o, come, nel diritto privato potranno anche farne a meno? - Disciplina giuridica di altri soggetti: chi sono? Ci dobbiamo aspettare alcune integrazioni dell’attuale normativa sulle scuole paritarie; oppure una diversa articolazione delle competenze stato/regione sulla formazione professionale? Oppure, ancora, l’ingresso nell’ordinamento della formazione professionale e dell’apprendistato? - Organizzazione delle istituzioni dell’Alta formazione: si penserà finalmente a razionalizzare le sedi dell’alta formazione? Il solo Triveneto ha più conservatori di tutta la Germania!
… e per l’università Anche le norme sull’università, confermano la natura restaurativa di questo provvedimento, e il grave deficit di pensiero strategico: dove va e dove dovrebbe andare l’università italiana? L’ossessione di ricondurre gli atenei (e le scuole) sotto il controllo ministeriale è in contraddizione con l’evoluzione di tutte le istituzioni dell’istruzione nel mondo, sempre meno legate a modelli statalistici, sempre più differenziate nelle relazioni col territorio, nelle reti lunghe delle conoscenze, tra le funzioni di ricerca e didattica, negli approcci disciplinari, nei modelli organizzativi, nelle carriere accademiche, nelle risorse finanziarie, ecc. Gli atenei moderni sono i luoghi della diversità dei saperi, non sono organismi geneticamente modificabili dalle norme. Dovremmo averlo imparato dalla storia: ogni transizione culturale si è accompagnata a un’innovazione istituzionale. La nascita del pensiero occidentale ha visto la creazione dell’università medioevale, la rivoluzione scientifica del Seicento l’accademia, la rivoluzione industriale l’università di tipo tedesco. Quest’ultimo modello è servito per tanto tempo a formare le élite nazionali, ma poi il secondo Dopoguerra ha ampliato gli accessi, senza però mettere in discussione la logica aristocratica da cui era nato. Questa contraddizione non è stata risolta e attende ancora una soluzione. Oggi le grandi università anglosassoni si sono lanciate nell’esportazione delle attività formative in tutti i continenti utilizzando anche le tecnologie e-learning. E la qualità degli atenei determina in gran parte la fortuna delle rispettive città nella globalizzazione. Non regge più il modello universitario che ci ha lasciato in eredità lo statalismo novecentesco (e il Ventennio). Nella transizione che stiamo vivendo bisogna ancora inventare le nuove istituzioni della conoscenza, pubbliche ma non più statali, aperte al mondo e creative nel territorio. Attendiamo riformatori!
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